di Giancarlo Grassi
Aveva così pochi argomenti, il buon Travaglio, mentre tentava di rincorrere e di rintuzzare gli attacchi del presidente del Consiglio Matteo Renzi, mentre tentava di far esistere l’inesistente, di provocare, di millantare, nel suo stile di perfetto provocatore senza futuro, che persino Lilly Gruber lo ha zittito più volte perchè era evidente che lo scopo di Travaglio non era contrastare dialetticamente e politicamente il presidente del Consiglio, ma fargli saltare i nervi con provocazioni inutili, gratuite e senza fondamento. Come in ogni momento della vita, e come in ogni momento televisivo, anche il buon Travaglio ha raggiunto lo zenith ed è stata quando Renzi gli ha detto che “l’unica cosa che cala in Italia sono le vendite del Fatto”, cosa che ha fatto andare il povero Travaglio su tutte le furie facendogli perdere il lume della ragione. Prima del diretto alla mascella sferrato da Renzi, c’era stata l’ennesima solfa grillina sull’articolo 70 della Costituzione, quello modificato, che non sarebbe votabile perché è di 480 parole: non perché non serve – badate bene – ma perché è troppo lungo. Pazientemente Matteo Renzi rispondeva alle insinuazioni di Travaglio smontandole ad una ad una fino a quando al buon fondatore de Il Fatto Quotidiano, non è rimasto che ridere istericamente ad ogni parola articolata dal presidente del Consiglio. Quando non si hanno argomenti e non si è capaci di reggere un confronto perché abituati ad un pubblico pagante che vuole seguire un monologo, anche lo scontro dialettico, ancorché vivace, riesce difficile da gestire soprattutto quando il mestiere e la convizione di essere un genio vanno di pari passo, come nel caso del Travaglio cultore del solo verbo travaglino. Gruber da parte sua, è uscita in qualche modo dall’antirenzismo filogrillino che era sembrata la cifra di Otto e Mezzo prima della pausa estiva, invitando più volte Travaglio a guardare in faccia Renzi mentre gli parlava, dato che l’uomo che sa tutto più di tutti e anche di più, si rivolgeva al primo ministro guardando in faccia la conduttrice. Insomma l’ennesima sortita di dubbio gusto, ma soprattutto di dubbia efficacia, di Marco Travaglio che, in nome di una linea editoriale sempre meno comprensibile e sempre più antipatica anche per i telespettatori de La7, continua a venire invitato in ogni consesso televisivo.
Rispetto poi alle copie invendute de Il Fatto, è lo stesso giornale di Travaglio che in un articolo del 28 aprile 2016 racconta come stanno le cose: ad aprile, Il Fatto ha venduto nelle edicole una media di 36 mila copie al giorno, con un aumento del 5 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno scorso e del 9 per cento rispetto al marzo 2016. Aggiungendo le 9.100 copie digitali, si arriva a quota 45 mila. Certo, nessuno nega il calo dei primi mesi dell’anno, peraltro in linea, anzi leggermente inferiore, con quello di tutti gli altri quotidiani: senza contare che, nel confronto con l’anno precedente, Il Fatto risente delle 500 mila copie vendute nel gennaio 2015 con la pubblicazione in allegato di Charlie Hebdo. Alla fine di aprile, le copie vendute rispetto al 2015 sono il 5 per cento in più.
Al di là delle polemiche sul lavoro di Travaglio, chi non lo vuole leggere non compra il giornale e non visita il sito web e buonanotte, le valutazioni vanno fatte rispetto all’atteggiamento con il quale Travaglio e tutta la sua cricca di in-comunicatori affrontano ogni incontro pubblico, televisivo o no, con i leader politici del governo: con faziosità, polemica gratuita, ergendosi a governo-ombra (si studiassero le storia del PCI che i governi-ombra li faceva sul serio, e con che risultati!) e disinformazione. Ognuno, vale anche per Renzi, affronta le discussioni come meglio crede, noi ci limitiamo ad annotare. E la perfomance di Travaglio del 22 settembre a Otto e Mezzo è stata un’altra pagina di pessimo giornalismo.
(23 settembre 2016)
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