Sono passati trent’anni dal primo caso di AIDS. Era San Francisco e una strana polmonite aveva cominciato a colpire membri della comunità omosessuale. L’infezione appariva circoscritta e
l’allarme fu relativamente basso. Quando i giovani di San Francisco cominciarono a cadere come birilli l’allarme aumentò. La chiamavano la ”peste gay” e cominciò ad ammazzare senza pietà. Quando a Parigi esplose il primo focolaio europeo arrivò la notizia della morte di Klaus Nomi, straordinario artista off tedesco, trapiantato a New York. Era il 1983 e la comunità gay era nel panico. Klaus Nomi fu il primo nome della lunghissima lista di artisti che scomparvero distrutti dal virus. I governi non sapevano che fare se non gridare ”Al frocio! Al frocio!”. L’Italia, che già si distingueva per l’idiozia dei suoi politici, fece il suo figurone con l’allora Ministro della Sanità Donat Cattin, sant’uomo con figlio terrorista, che pensò bene di inviare una lettera alle famiglie italiane che diceva pressappoco che l’AIDS se la pigliava chi se l’andava a cercare. In trent’anni l’AIDS ha contagiato sessanta milioni di persone, ammazzandone la metà, e non c’è ancora nessuna cura in vista. L’Occidente ricco ha conseguito più o meno cronicizzare la malattia, con il risultato che sono aumentati i comportamenti a rischio e la comunità omosessuale, dopo essere stata la prima a proteggersi, ha smesso di farlo e ricomincia a contare i suoi morti. Le istituzioni temporali, Santa Romana Chiesa in testa, continuano la loro incosciente battaglia contro il profilattico e Africa e Asia continuano a pagare un altissimo prezzo all’incoscienza altrui e alla loro povertà. Sono passati trent’anni e pare che poco sia cambiato.