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di Marco Biondi

Nelle mie analisi, amo partire dalle basi: la semplicità aiuta a comprendere. La banalità dalla quale parto oggi è la seguente: qualsiasi azienda, pubblica o privata che sia, persegue, quanto meno, l’obiettivo di pareggiare i conti. I ricavi che sono prodotti devono almeno pareggiare i costi.

Se poi l’obiettivo sociale, sancito nello statuto dell’azienda, è quello di produrre utili al fine di distribuirli ai propri soci, l’obiettivo pareggio di bilancio, nel lungo termine, è un risultato insoddisfacente. Il risultato al quale chi amministra l’azienda deve tendere è fare utili e distribuirli ai propri soci. Non mi occupo di associazioni senza scopo di lucro, perché quelle rispondono ad altri obiettivi.

Per quanto riguarda le aziende di proprietà pubblica, quelle che svolgono servizi di pubblica utilità o che perseguono obiettivi a vantaggio del pubblico, possono anche permettersi di chiudere in perdita, a condizione che il deficit sia debitamente coperto dal bilancio dello Stato, nelle sue varie forme. E qui, la mia lezione di ragioneria termina. Ma sono principi essenziali per capire quello che viene dopo. E dopo viene la RAI, di proprietà pubblica e con finalità di pubblica utilità.

Mi sono sinceramente stancato di sentir parlare del contratto di Fabio Fazio. In questo caso non ci è dato di sapere se la sua scelta di abbandonare la TV pubblica sia stata dettata da interessi personali o meno, di sicuro i suoi interessi personali il signor Fazio se li sa curare molto bene, e quindi direi che non è il caso di occuparcene. Se però, invece del singolo, ci mettiamo a parlare della trasmissione che lui curava per la RAI e che ora ha spostato a un’altra emittente (e smettiamola di fargli ancora pubblicità), riandiamo a un principio basilare che deve orientare le scelte dell’amministrazione della RAI in termini di spettacoli d’intrattenimento: il suo programma generava o meno utili? Nel senso che la pubblicità che veniva venduta perché fosse trasmessa durante il suo spettacolo, fruttava in termini di guadagno più dei costi totali di produzione, stipendi dei protagonisti compresi? Se si, la RAI ci ha perso, se no, ci ha guadagnato. E’ semplicemente sappiamo che ci ha perso. Punto. Queste considerazioni devono valere per tutti i programmi d’intrattenimento, telegiornali ovviamente esclusi.

E ora viene il bello: le scelte che sono state operate dalla nuova dirigenza RAI, espressa successivamente alle ultime elezioni politiche, rispondono a questi concetti base? Ecco il punto. Assolutamente no.

Se per ricompensare personaggi vicini alla maggioranza, la TV di Stato perde continuamente spettatori, e inesorabilmente perde introiti pubblicitari, la sua dirigenza ha un problema concettuale molto grosso da affrontare: come coprirà le perdite o i minori utili che risulteranno dai suoi prossimi bilanci? Se un’azienda privata può permettersi, per ragioni sue, di chiedere alla proprietà di ripianare le perdite, una società pubblica non lo può fare, perché significherebbe utilizzare fondi pubblici per compensare incapacità gestionali. E la RAI ha ottenuto dal Ministero dell’economia uno stanziamento per coprire tali perdite? Rispondo io: no.

E se poi, il famoso canone viene ridotto, pur di fronte a una evidente perdita di competitività, siamo sicuri che non si tratti di “mettere le mani avanti” per giustificare le future perdite che incideranno su tutta la collettività? Dubbi? Pochini.

E non abbiamo parlato di conflitto d’interessi: tutti noi sappiamo che uno dei partiti della maggioranza è, di fatto, il proprietario dell’unico vero concorrente della RAI, ovvero Mediaset. Facendo perdere ascolti a causa di programmi o conduttori mediocri, chi guadagna? Non è che, per caso, sia l’unica concorrente?

Infine, prendiamo in considerazione il ruolo di servizio pubblico della RAI: fornire un’informazione corretta ed equilibrata. State già ridendo vero? Io no, non più.

E mi spiego subito perché non c’è niente da ridere: quando il sagace ex cavaliere ora defunto “scese in politica” (nel senso che la politica la fece scendere a livelli imbarazzanti), ci fu, quanto meno, una lotta per attenuare il conflitto di interesse che si era formato. Se pensiamo che la Legge Mammì (Governo Craxi) è ancora oggi un baluardo, pur parzialmente demolito dalle correzioni operate dal suo successore Gasparri (Governo Berlusconi), possiamo capire che oggi non esiste opposizione in grado di limitare l’influenza di una “voce unica” nella comunicazione televisiva. E tutti sappiamo quanta influenza sulle intenzioni di voto abbia ancora oggi la televisione. Chi non segue la TV è, per la grande maggioranza, qualcuno che non andrà a votare. Se oggi ci troviamo in questa situazione, non possiamo certo prendercela con Giorgia Meloni; lei usa quello che gentilmente le è stato lasciato. Non perdonerò mai, invece, quanto la nostra fantomatica sinistra avrebbe potuto fare e non ha fatto, a partire dall’illustre Massimo D’Alema. Il conflitto di interessi in campo televisivo doveva essere smontato allora, magari inserendo qualche salvaguardia a livello costituzionale. Ma non fu fatto. Chissà perché.

E quello che abbiamo oggi è figlio di quanto, ieri, chi poteva non ha fatto. Grazie di cuore.

 

 

(4 novembre 2023)

©gaiaitalia.com 2023 – diritti riservati, riproduzione vietata

 




 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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