di Vittorio Lussana
Gli Stati Uniti degli anni ’50 del secolo scorso erano una nazione che usciva trionfante da due guerre mondiali: una vera e propria superpotenza militare ed economica, con un Prodotto interno lordo in costante crescita. Tuttavia, gli Usa soffrivano di alcuni atavici malanni sociali che si trascinavano da tempo: la questione razziale, ma anche enormi differenze di classe. Era, quella, l’età d’oro del capitalismo a stelle e strisce: gli anni della piena occupazione e del boom economico, che sembrarono allontanare definitivamente la lunga depressione successiva al crollo di Wall Street del 1929. Non è affatto un caso se il telefilm più popolare ambientato proprio negli Stati Uniti degli anni ‘50, fosse intitolato: Happy days (letteralmente: Giorni felici, ndr).
In seguito, sempre sul fronte sociale, negli Stati Uniti giunse l’epoca del maccartismo, che sfociò nel bigottismo e nella censura. Una torsione ideologica simile al suprematismo di oggi: una tentazione in cui gli amerikani, periodicamente, ricadono, ma che di solito è persino salutare per le politiche progressiste occidentali, perché le costringe a riflettere sul fatto che una sinistra moderna, laica e progressista non può rappresentare la frontiera culturale e filosofica della civiltà più avanzata se non comprende che deve combattere il conformismo, i pregiudizi e la discriminazione. In caso contrario, non riusciremo mai a costruire un’Europa di popoli e di cittadini responsabili, ma solamente dei prigionieri di preconcetti, che sono veri e propri recinti ideologici. Quindi, questa volta non ci si dovrà battere solamente per il Green Deal, ma anche per regolamentare uno sviluppo tecnologico il quale, non avendo una funzione precisa, finisce col diventare il principale alleato dei conservatorismi più ottusi e della paura del diverso, dei valori nazionalisti e della religiosità integralista e rituale.
E’ dunque necessario puntare su un’Europa che sappia guardare dentro se stessa, per coinvolgere maggiormente i popoli e i suoi cittadini nel processo di costruzione e d’integrazione europea. E per far questo, si deve cominciare col dedicare una maggior attenzione al mondo della scuola, dell’istruzione, dell’innovazione e della ricerca, non per esaltare un positivismo piatto e uno sviluppo tecnologico che tende a divorare professioni e posti di lavoro, ma perché quello stesso sviluppo, in quanto puramente tecnico, rischia di diventare un inganno a favore del fatalismo più demagogico e bigotto, generando contraddizioni e discriminazioni a getto continuo.
Occorre, insomma, ripartire dal dubbio. Un principio da porre al centro dello sviluppo stesso: solamente il tarlo del dubbio può smuovere i cittadini a favore di uno scardinamento del pregiudizio e del pessimismo più plumbeo verso le potenzialità umane, ricacciando questa sfiducia atavica tra i miasmi delle subculture più obsolete e provinciali. Le culture progressiste devono farsi portatrici del logos, della parola come processo verso la ragione. Il pregiudizio è una risposta facile a problemi complessi. E la banalità del pregiudizio si contrappone alla complessità dei processi cognitivi. Compito della cultura progressista è perciò quello di allenare i cittadini alla complessità, inserendo il tema del dubbio come principio. Altrimenti, la semplicità della rimozione e della negazione continueranno a zavorrare il cammino della costruzione europea in quanto superamento dei nazionalismi più inattuali e inefficaci ad affrontare questioni sempre più enormi, come quelle ambientali, immigratorie e demografiche.
Qualunque tentativo delle singole nazioni di invertire il processo di denatalità, sorto sin dagli anni ‘80 del secolo scorso, si scontra contro questa verità: ogni stimolazione sociale che pretenda d’invertire questa tendenza è ormai fuori tempo massimo. Dovevamo pensarci prima, con politiche più lungimiranti e sensibili all’avanzamento delle giovani generazioni, investendo risorse nei settori scolastici, scientifici e della ricerca. Non lo si è fatto ed è questa è la principale responsabilità dei singoli Stati-membri: inutile, oggi, aggrapparsi alla demagogia dei populismi, poiché essi sono i primi a non aver affrontato per tempo tali problematiche.
Quindi, ci vuole più forza nell’esporre le ragioni dell’europeismo, affiancate da un’umile insistenza nel presentare tali contenuti ai popoli, affinché capiscano che essi non devono lasciarsi imbambolare dagli irrazionalismi più sprezzanti e aggressivi. Un’aggressività che rappresenta solamente il sintomo di un gigantesco senso di colpa per aver fallito il proprio compito nei confronti delle generazioni più giovani, ai quali è stata consegnata una società basata sul precariato e sull’individualismo più egoistico e indifferente.
Inutile, oggi, reagire irrazionalmente a tali fallimenti. Anche se è vero che si tratta di errori delle politiche popolari e moderate – più colpevoli rispetto a quelle nazionaliste – la cui reazione risulta giustificata nei confronti di una società divenuta liquida, priva di valori e stracolma di incertezze. Perché è vero che si poteva puntare sulla famiglia, anche se tale concetto viene espresso all’interno del consueto solco apologetico conformista e patriarcale, rifiutando ogni tentativo di allargamento o di modernizzazione del concetto di nucleo familiare.
Dobbiamo convincere i cittadini europei a evitare ogni deriva di retroguardia, che segue sempre ai fallimenti delle culture moderate, basate su un’austerity erronea, mal calcolata e spesso ingiusta. Bisogna tornare alle culture basate sulla conoscenza. E i cittadini europei dovranno comprendere questo punto: siamo di fronte a una competizione precisa tra un approccio assertivo-impositivo, che rifiuta il dialogo per affidarsi agli slogan più sintetici e depistanti e le culture basate sulla solidarietà tra i popoli, sulla costruzione di alleanze, sulla ricerca di tutte le possibili opzioni che possano ricondurre l’Europa e le singole nazioni lungo la strada della ragionevolezza e del confronto.
In conclusione, per non cadere nella leggerezza con cui spesso si accusa e si condanna, va messa in discussione la superficialità del potere. Il potere dovrebbe essere sinonimo di responsabilità. E la responsabilità ha, come primo dovere, l’utilizzo della logica, perché la ricerca della verità è un percorso lungo, delicato e complesso, mentre le soluzioni rapide sono quelle che spesso ingannano.
(10 agosto 2023)
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