di Vittorio Lussana
Entrando nel merito di un processo di definitivo superamento del fascismo italiano, di esso potrebbero essere riconsiderate alcune sue peculiarità: a) la conformazione che esso ha fornito allo Stato, in particolar modo nelle sue strutture prettamente capitalistico-sociali, ovvero nei suoi enti economici e assistenziali, discendenti da un ben congegnato corporativismo giuridico, qualità che rende il ventennio ruggente non perfettamente allineabile ai sistemi totalitari di matrice marxista o nazionalsocialista; b) il tentativo di ristrutturazione di una coscienza collettiva nazionale che, tuttavia, non corrispose esattamente, nelle finalità, alle attese.
Costruire un’Italia di popolo non era un progetto semplice, rispetto alla conformazione storica di un Paese spesso guidato da oligarchie minoritarie, storicamente dominato da potenze straniere o frazionato in una miriade di realtà campanilistiche assai composite e multiformi. Per non parlare della questione di un equilibrato giudizio storico da fornire al processo del Risorgimento italiano: una conquista lenta e assai dolorosa, coordinata da alcune élites borghesi sulla base di giochi diplomatici internazionali e casualità politiche, ma anche di grandi sacrifici umani pagati direttamente dalle masse popolari.
Insomma, senza il retroterra di un’autentica rivoluzione nazionale, in grado di abbattere una serie di consuetudini feudali e di mentalità, per il fascismo fu praticamente impossibile riuscire a creare una coscienza di Stato realmente solida, capace di porre seriamente in discussione le millenarie logiche dissimulatorie che hanno sempre costituito il nostro tessuto culturale più profondo. Dunque, in mancanza di tutto ciò, il fascismo non poté far altro che divenire, nella sostanza, un fenomeno autoritario, piccolo borghese, burocratizzato, imposto quasi esclusivamente dall’alto, né più e né meno come tanti altri fenomeni economici, politici, filosofici o religiosi che hanno attraversato la nostra controversa Storia nazionale.
Tutta una serie di errori fecero il resto: a) un equilibrio di potere imperniato su un’eccessiva acquiescenza, se non condiscendenza, verso gli interessi della classe imprenditoriale e del grande capitale; b) una deroga assoluta nei confronti di ogni tema concernente le libertà pubbliche, in favore di un ordine sostanzialmente immobilista del Paese; c) una politica estera poco differenziata rispetto alle logiche instauratesi nella struttura di potere interno alla nazione, come se le altre potenze internazionali, imperialiste, colonialiste e demoplutocratiche fossero non molto dissimili, in termini socioeconomici, rispetto all’Italia e alla sua realtà di grande proletaria; d) un Concordato opinabile e forse dannoso con la Santa Sede, che contaminò incredibilmente uno Stato già prigioniero di troppi vincoli di carattere economico, sociale e burocratico con una struttura ecclesiastica vetusta, ieratica, chiusa in se stessa. Insomma, il fascismo non fu altro che un ingannevole minestrone clerico-statalista, reso ancor più indigeribile da una stravagante diarchia coabitativa con la monarchia sabauda, assai distante dai reali interessi del popolo italiano. Un sistema di potere che avrebbe potuto servirsi delle teste migliori per autorinnovarsi, ma che non fu in grado di farlo.
Tali considerazioni non comportano né facili condanne né, tantomeno, qualche nostalgico rimpianto. Comunque la si voglia girare, il fascismo fu una dittatura. Una strana dittatura, ma pur sempre un sistema politico a forte carattere autoritario, che non possedeva assolutamente le basi per poter sopravvivere a se stesso; che impose la fascistizzazione delle università italiane; che costrinse le migliori menti intellettuali del Paese a giurare la propria fedeltà al regime; che non seppe esercitare, né sviluppare, una capacità valutativa di meritocrazia reale delle carriere ai livelli più alti delle Forze armate; che estromise dall’insegnamento tutta la docenza di origine israelitica o di religione ebraica.
Infine, cosa non meno grave, il fascismo si configurò per la totale assenza di una propria colonna vertebrale culturale, per riuscire a prevedere come mutare se stesso, al fine di adattarsi ai tempi rispetto al proprio carattere opportunistico e nelle sue basi demagogiche. Tutte caratteristiche che portarono Giovanni Gentile in persona a definirlo: “Un sistema basato su semplici atteggiamenti: un puro formalismo. Un’etichetta, salutata la quale, può consentire la realizzazione di qualsiasi tipo di contenuto, persino di matrice rivoluzionaria”.
Bene: siccome nessuno lo fa e ci si perde in contrapposizioni e polemiche astratte, siamo noi, oggi, a chiedere che si apra un dibattito intorno alla questione del rinnovamento della destra italiana in senso liberal-conservatore, restando aperti a qualsiasi contributo, da qualunque parte provenga.
(25 ottobre 2024)
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