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Superbonus: luci e ombre di una misura anticiclica

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di Vittorio Lussana

A grande richiesta, abbiamo ricostruito le vicende del superbonus edilizio. Un compito non semplice, poiché si tratta di un provvedimento escogitato in epoca pandemica, modificato più volte da tre diversi esecutivi, compreso quello attuale.

Dunque, cominciamo col dire che il superbonus venne introdotto con l’articolo 119 del decreto Rilancio, nel mese di maggio del 2020 dal governo Conte II. E fin dall’inizio, quel che incuriosiva tutti quanti era il suo cervellotico meccanismo d’incentivazione fiscale: come funzionava esattamente quel 110% che molti colleghi delle redazioni economiche sparavano nei titoli di tutti i giornali? Si trattava di un intervento di tax expenditure (incentivo fiscale, ndr) a sostituzione di una spesa per investimenti pubblici in campo edilizio. Questo era anche il punto debole del provvedimento, perché ha finito col dirottarlo verso altre direzioni, anziché orientarlo verso le abitazioni dei ceti meno abbienti. Probabilmente, l’intento era quello di far circolare una robusta mole di crediti d’imposta acquisiti dai contribuenti, intervenendo in un settore, quello edilizio, in grado di trainare una forte ripresa economica, dopo lo stop delle attività causato dal lockdown per il Covid 19. In sostanza, si era aperta una finestra di sospensione del Patto di stabilità siglato in sede europea. E servivano interventi pubblici per far ripartire le attività produttive.

Le due novità dello strumento erano la cessione del credito e la remunerazione stessa di questa cessione, in modo da attivare il circuito bancario e assicurativo. Non era un’invenzione campata per aria: altri bonus edilizi, in passato, avevano anch’essi previsto un credito d’imposta a sottrazione, cioè da smaltire all’interno di un determinato arco temporale.

Il primo bonus edilizio risaliva all’estate del 1998. Fu varato dal governo Prodi I poco prima di cadere nell’ottobre di quell’anno, anche se poi il successivo esecutivo, guidato da Massimo D’Alema, lo confermò. Un secondo provvedimento simile fu, invece, quello per la ricostruzione post terremoto in Emilia-Romagna: il sismabonus del 2012, che prevedeva un credito d’imposta dell’80% per chi, a fronte di danni lievi derivati dal terremoto, s’impegnava a ripararli aggiungendo anche una ristrutturazione migliorativa con criteri antisismici. In questo caso, non venne prevista alcuna remunerazione del credito (il 10% per cento in più, previsto nel provvedimento del 2020). In sintesi, gli ideatori storici del bonus edilizio “per rifare la faccia dell’Italia” furono Romano Prodi e Carlo Azegli Ciampi. L’idea fu poi ripresa da Stefano Bonaccini, anche se per una platea molto ristretta. Infine, c’è questo episodio del 2020 da intestare, fondamentalmente, a Riccardo Fraccaro e Roberto Gualtieri.

Sia come sia, la verà novità del superbonus era soprattutto la cessione del rapporto creditizio che s’instaurava con lo Stato, verso soggetti terzi, come banche e assicurazioni, le quali possiedono una maggiore capacità fiscale rispetto alle ditte costruttrici. La capacità di assorbimento di questo credito, insomma, era il cardine dell’operazione. Ed è qui che qualcosa è andato storto. Era chiaro, infatti, che grazie alla digitalizzazione delle pratiche, con lo sconto in fattura dell’intera cifra per il contribuente e la cessione del credito alle banche da parte delle imprese edili, il superbonus avrebbe avuto un enorme numero di richieste. Anche perché, la platea dei richiedenti non era circoscritta. Il grande errore del superbonus è stato esattamente questo: averlo pensato aperto a tutti, anziché riservarlo a una platea d’incapienti, cioè di contribuenti con livelli di reddito medio-bassi, non in grado di anticipare la liquidità necessaria a remunerare le aziende per i lavori eseguiti.

Ora, basandoci sui dati dell’ente certificatore degli interventi (l’Enea, ndr) e sulle relazioni Bankitalia, non ci sono dubbi circa l’effetto redistributivo dell’intervento. E anche l’Agenzia delle entrate ha messo in luce come il superbonus sia stato “l’unico bonus edilizio non regressivo”, cioè redistributivo, anche se meno di quel che avrebbe potuto essere. C’è anche una stima, un po’ impietosa, di Nomisma su oltre 10 milioni di abitazioni ristrutturate con il superbonus: solo 1 milione e mezzo erano case abitate da nuclei familiari a basso reddito.

In pratica, l’effetto redistributivo è stato notevole. Ma quasi niente è andato all’edilizia residenziale pubblica. Ciò in quanto il patrimonio immobiliare, in Italia, ha una caratteristica particolare: esso è estremamente parcellizzato o per lo più in mano a privati. In secondo luogo, si tratta di un patrimonio colabrodo, in larga parte costruito prima degli anni ’70 del secolo scorso, assai difficile da efficientare attraverso piani nazionali di riqualificazione energetica (di cui ci sarebbe assoluto bisogno, ndr), anche per la direttiva europea sulle cosiddette case green. Alla fine il superbonus ha riqualificato solo il 5% dell’intero patrimonio residenziale privato. E per quanto riguarda gli obiettivi di transizione energetica, solo un terzo delle capacità provenienti dal fotovoltaico installato nel 2021 è da ricondurre agli interventi trainati dal superbonus.

Detto questo, c’è anche da dire che il superbonus è stata una buona idea per tutta una serie di imprese e di lavoratori, in un settore da sempre caratterizzato da scarsa sicurezza sui cantieri. Si tratta di una selva di microimprese con 2 o 3 addetti al massimo, che già da tempo denotavano scarsa produttività. Tuttavia, attraverso i vari meccanismi di certificazione del superbonus edilizio, i controlli di sicurezza dei lavoratori, il rispetto dei contratti, la qualità dei materiali e degli interventi e l’esclusione di qualsiasi subappalto esterno, sono stati garantiti. Il rispetto dei tempi e la rigidità dei controlli ha accresciuto la produttività e l’investimento nell’impiantistica e nei materiali. E dei circa 97 miliardi di investimenti ammessi in detrazione tra il 2021 e il settembre del 2023, il 18% è andato all’industria manifatturiera; il 13% ai servizi di progettazione e piattaforme; e un altro 13% alle banche e agli intermediari finanziari. Alla fine della fiera, lo Stato ha avuto anche un ritorno del 34% circa dell’investimento effettuato. Ed ecco da dove sbuca il sovrappiù di entrate fiscali, che il Governo Meloni spaccia come merito proprio.

Il complesso apparato di validazione tecnica, basato su sanzioni molto pesanti in caso di irregolarità, ha inoltre limitato enormemente le frodi. E ci sarebbe anche da evidenziare che, per la prima volta, la ripresa produttiva post Covid attraverso l’edilizia, ha riguardato ristrutturazioni di edifici esistenti e non un ulteriore consumo di suolo.

Veniamo ora alla parte più spinosa dell’intera operazione: quella della contabilizzazione del credito che grava sui nostri conti pubblici. Il superbonus al 110% è stato uno strumento innovativo: un caso limite tra credito d’imposta dovuto e quello non dovuto. Un ibrido difficile da catalogare. Tanto è vero che l’Eurostat ha registrato le due prime annualità come crediti d’imposta non immediatamente esigibili. Cioè, in termini tecnici, non dovuti e senza gravami immediati sui conti pubblici, alla stregua dei precedenti bonus edilizi.

Poi è arrivato il Governo Meloni, che ha proceduto alla riclassificazione a ritroso dei crediti d’imposta del superbonus, a cominciare dal 2020 fino al 2023. Ed è venuto fuori che questo provvedimento ha indubbiamente impattato sul disavanzo pubblico, cioè sul monte debitorio complessivo, ma non sui conti di cassa. Ciò significa che questa riclassificazione, ascrivendo tutto al passato, quando peraltro i parametri di Maastricht erano sospesi, ha liberato spazio alle manovre di bilancio del 2023 e del 2024. E le critiche sono, tutto sommato, gratuite, com’è tipico dei governi di destra, I quali, sin dall’epoca berlusconiana, grossi danni non ne fanno, ma è anche vero che essi non azzardano mai nulla, poiché contrari a qualsiasi idea o innovazione. E il bello è che bisogna pure aiutarli con consigli o suggerimenti scaltri, come per esempio il recentissimo “contributo volontario”, il quale altro non è che un anticipo di cassa richiesto a banche e assicurazioni.

Resta alla fine – e questo è pur vero – un senso d’inquietudine per un’occasione in parte sprecata, boicottata da chi non ha voluto mettere in sicurezza il principale intervento anticiclico degli ultimi anni in favore dell’ambiente e dei ceti meno ricchi. Colpevolizzati, tra l’altro, come coloro che hanno avuto accesso al reddito di cittadinanza.

 

 

(18 ottobre 2024)

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