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Omicidio Dalla Chiesa: alcune precisazioni

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di Vittorio Lussana

In merito alla polemica che ha visto coinvolti i figli del generale dei Carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, del quale si sono celebrati, nei giorni scorsi, i 42 anni dall’assassinio, avvenuto a Palermo il 3 settembre 1982, sarebbe il caso di precisare alcuni fatti da tempo acclarati sia dalla magistratura, sia dai colleghi che si sono occupati del caso.

L’omicidio palermitano del generale Dalla Chiesa, della sua compagna, Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo, fu il frutto di un allontanamento ipocritamente travestito da missione-promozione: indagare più a fondo la mafia siciliana in veste di Prefetto di Palermo, dopo aver sgominato il terrorismo di estrema sinistra. Tutto ciò, fingendo di non sapere che alcune teste pensanti di Cosa nostra risiedevano stabilmente a Roma, oppure risultavano eterodirette da alcuni ambienti della capitale ritenuti, a quei tempi, intoccabili.

Già da molti anni, Pippo Calò, Totò Riina e Francesco Madonia si servivano di Licio Gelli e della loggia massonica P2 per i loro investimenti e per riciclare il denaro sporco, quello cioé proveniente dallo spaccio di droga e da altre attività illecite. Parte di questo danaro veniva investito nello Ior, la banca del Vaticano diretta dall’arcivescovo Paul Marcinkus, in cui Licio Gelli figurava come rappresentante di un gruppo di interessi subentrato a Michele Sindona, il banchiere dei precedenti capi-mafia: Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo.

Licio Gelli, a sua volta, aveva prestato una somma ingente di danaro al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi: un istituto di credito milanese di cui lo Ior era l’azionista di maggioranza. Quel denaro, tuttavia, non apparteneva solamente a Gelli, ma anche a Pippo Calò, che era il vero cassiere di Cosa nostra. In pratica, il suicidio londinese di Roberto Calvi, ormai sull’orlo della bancarotta, fu una vera e propria messa in scena: il presidente del Banco Ambrosiano era stato prima strangolato da alcuni sicari di mafia su mandato di Licio Gelli e Pippo Calò. In seguito, il suo cadavere venne fatto ritrovare appeso sotto a un ponte sul Tamigi chiamato dei Frati neri, inscenando un cervellotico suicidio.

La scelta di quel ponte, in realtà, era un chiaro messaggio in codice: i fratelli neri avevano deciso la soppressione di Calvi, utilizzando la manovalanza mafiosa agli ordini di Pippo Calò. Il quale, per quasi tutti gli anni ‘70 del secolo scorso, viveva a Roma in un appartamento situato in viale Tito Livio, nel quartiere Balduina. Egli era un uomo fondamentale per Cosa nostra, poiché intratteneva rapporti con tutti: da Totò Riina a Stefano Bontate, dalla nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo al Vaticano, dai servizi segreti deviati alla banda della Magliana e alla stessa P2. Oltre a essere il vero controllore dello spaccio di eroina in varie zone di Roma, dal Testaccio alla Magliana, fino ad Acilia e alla stessa Ostia.

All’inizio degli anni ‘80 del secolo scorso, il mafioso Gaetano Badalamenti raccontò a Tommaso Buscetta che giravano “alcune voci insistenti” che infastidivano Giulio Andreotti, relative al sequestro Moro e non solo. Andreotti era molto preoccupato, poiché si trattava di informazioni riservate, che potevano, improvvisamente, esplodere come una bomba a orologeria. Si trattava di segreti di cui erano al corrente, sin dal 1978, sia il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sia il giornalista Mino Pecorelli. Pertanto, gli omicidi di Dalla Chiesa a Palermo e di Pecorelli in via Tacito a Roma, nei pressi della centralissima piazza Cavour, vennero realizzati da Cosa nostra, ma in realtà furono due delitti politici voluti dai cugini Ignazio e Antonino Salvo, due mafiosi aderenti alla Dc siciliana, per fare un favore ad Andreotti.

In particolare, Badalamenti raccontò che l’omicidio Dalla Chiesa non era una vendetta o una ritorsione mafiosa, bensì il frutto di una paranoia di Giulio Andreotti. Dalla Chiesa, infatti, era in una fase puramente organizzativa delle sue indagini e non aveva ancora fatto niente che ne giustificasse l’assassinio: lo avevano semplicemente inviato a Palermo con la promessa di poteri speciali, che non arrivarono mai.

In sostanza, l’omicidio del generale Dalla Chiesa non fu una decisione siciliana, ma proveniva, in realtà, da Roma. Una verità confermata separatamente – e in momenti diversi – sia da Salvo Lima, ex coordinatore regionale della Dc siciliana, sia da Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo. Affermiamo ciò anche al fine di sfatare il falso mito “dell’ignoto suggeritore”, messo in circolazione proprio da Giulio Andreotti nel 1993: si trattava di fatti che si sapevano già da tempo e per cui lo stesso Salvo Lima venne assassinato, nel 1992, in quanto colpevole di aver tradito. Le confessioni di Lima, Ciancimino e altri vari pentiti di mafia erano state, infatti, raccolte dalla magistratura in sedi e in momenti diversi, senza alcuna possibilità di collegamento tra i distinti soggetti.

Salvo Lima, per inciso, per tutti gli anni ‘80 del secolo scorso fu il collettore di molti pacchetti di voti che, da interi decenni, venivano garantiti alla Dc al fine di riequilibrare la forza elettorale delle sinistre, che già dal 1968 era superiore a quella democristiana. Questi voti furono assicurati alla corrente andreottiana sin dal 1979, quando Andreotti e Lima s’incontrarono con Stefano Bontate e i cugini Salvo, diventando il nuovo gruppo di riferimento politico di Cosa nostra siciliana. Nel corso di quell’incontro, tra l’altro, Stefano Bontate minacciò ritorsioni nei confronti del presidente della Regione Sicilia, Pier Santi Mattarella, fratello maggiore dell’attuale capo dello Stato, perché contrario agli interessi di Cosa nostra…

Sia ben chiaro: l’omicidio del generale Dalla Chiesa non fu un agguato ordinato e voluto espressamente da Giulio Andreotti. Più semplicemente, fu il frutto di un’ossessione da cattiva coscienza, poiché mancava un pezzo del memoriale Moro in cui il presidente della Dc, in un passaggio specifico, fece riferimento all’esistenza della struttura Gladio. Uno stralcio di cui fu ritrovata una copia solamente nell’ottobre del 1990, nell’intercapedine dell’appartamento milanese di via Monte Nevoso, in cui le Brigate Rosse erano solite riunire il loro Comitato esecutivo. La prova inoppugnabile che alcuni elementi dei servizi segreti non solo si erano da tempo infiltrati nelle Br, ma che addirittura erano in grado di condizionarne le azioni o insabbiarne le trattative, come quella per la liberazione di Aldo Moro.

Tutti fatti conosciuti dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dal giornalista Mino Pecorelli. E che dovettero attendere almeno un decennio prima di venire alla luce.

 

 

(6 ottobre 2024)

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