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Ci sono palazzi con una piscina per ogni piano e poveracci in basso con un catino per raccoglierne le gocce d’acqua

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di Vanni Sgaravatti

Mi sento italiano, se do questo nome a quella sensazione di nostalgia, di serena familiarità nel rinvenire nella mente i ricordi di infanzia, legati all’ambiente che ho conosciuto appena ho aperto gli occhi, inevitabilmente accompagnato dal ricordo dello sguardo dei miei genitori.

Sono questi ricordi, alimentati dalla mia educazione e socializzazione primaria che, inevitabilmente, mi fanno sentire più vicino alle persone che condividono la mia cultura, verso cui pongo una maggiore attenzione. Ricordi e vicinanza che mi possono persino far commuovere, alzare in piedi di fronte alla bandiera e all’inno nazionale, quando i team sportivi italiani vincono una gara.

Ma lo sport per me è un gioco, in cui ci si può allenare anche alla battaglia, per sconfiggere l’avversario, sapendo però che nella vita reale gli avversari veri sono i problemi che ostacolano lo sviluppo e il benessere degli uomini e, in particolare delle comunità in cui vivo. Ostacoli a quello che certi neuroscienziati chiamano il foraggiamento materiale e cognitivo, cioè all’acquisizione delle risorse che determinano tale sviluppo. Battaglie per il superamento di tali ostacoli che, auspicabilmente e idealmente immagino richiedano e spingano verso rapporti di collaborazione più che competizione con i propri simili. Ma non mi sento certo italocentrico, se con questa parola intendo riferirmi a quella caratteristica identitaria, che permette di sentirci più sicuri, perché più forti e migliori degli altri.

Faccio due esempi su cosa intendo. L’Onu e la Chiesa Cattolica.

La prima è l’Organizzazione delle Nazioni Unite che agisce sulla base di norme e regolamenti e che, pur tenendo conto del peso di potere di ogni stato nel processo decisionale, si dovrebbe occupare delle sorti del pianeta.

Ora, si consideri che i profughi nel mondo sono 120 milioni e il 70% delle migrazioni sono all’interno dei paesi privi di risorse. E questa percentuale sarebbe molto più alta se fossero conteggiati come profughi le migrazioni interne dei quasi tre miliardi di persone che vivono in Cina e in India. Inoltre, si consideri che un paese come il Congo conta sette milioni di immigrati rifugiati, che non stanno nei villaggi sotto le palme, ma stanno nelle periferie di città quasi come le nostre, dove ci sono vie, grattacieli, piazze e persone che vanno al lavoro. In India, in queste metropoli, ci sono zone residenziali, come nelle nostre città, ed in alcune di queste ci sono palazzi con una piscina per ogni piano, anche se, a piano terra si aggirano immigrati, rifugiati che sono in fila con una bacinella per cercare di raccogliere le gocce di acqua che fuoriescono dai tubi che alimentano quelle piscine.

A fronte di questo contesto planetario, gli italocentrici pensano che le istituzioni internazionali non si preoccupino abbastanza della presunta invasione di immigrati nella nostra penisola e ci lasciano da soli, ad affrontare questa piaga sociale.

Cosa dovrebbe fare l’Onu? Su quali problemi dovrebbe intervenire, quando deve occuparsi di migrazioni e degli effetti di queste su carestie, malattie e insicurezza mondiali? Non dovrebbe adottare un approccio paretiano, cioè quello che ti suggerisce di partire dal problema prioritario, più grave, così che, con le stesse risorse investite si possano ottenere i maggiori risultati?

Certamente la vita umana non si misura in numeri e cento persone in un barcone che annegano nel mare mediterraneo sono una vera tragedia, ma dovrebbero forse considerare l’Italia un paese da supportare perché invaso da persone che potrebbero minare la sicurezza delle nostre città? Per gli italocentrici, per quella classe media che, magari con duri sacrifici, gode di pensione, per magra che possa essere, di una casa, in molti casi da lasciare ai figli, di sistema sanitario universale, la migrazione significa anche una minaccia alla  sicurezza di quanto è stato acquisito, magari ricordando con nostalgia all’infanzia, quella degli anni ’60, quando molti italiani scoprirono le vacanze, sentivano di avere un futuro davanti a loro e non si chiedevano da dove venivano quelle risorse necessarie al nuovo benessere, in gran parte acquisite in territori lontani. Forse non potevamo chiedercelo: eravamo bambini.

L’altro esempio, da cui emerge il carattere dell’italocentrismo, è l’universalismo della Chiesa Cattolica, per come viene inteso dagli italocentrici che la intendono come la valenza, universale appunto, dei principi etico morali della Chiesa di Roma e che devono valere per tutti. Una distorsione del concetto di universalismo che, in realtà, significa che i credenti o coloro che vogliono esserlo sono tutti fratelli, qualsiasi sia la loro provenienza territoriale. E allora se quest’ultimo è il significato di universale, perché la Chiesa cattolica dovrebbe considerare più importante la sicurezza di un italiano piuttosto che la salute di un bambino del Congo che lavora in una miniera di cobalto utile ai nostri telefonini? E perché dovrebbe essere più cristiano un signore fiorentino rispetto ad un abitante del Madagascar?

La Chiesa, anche se viene talvolta criticata dai conservatori perché si occupa troppo dei problemi sociali, non può non perseguire la dottrina sociale, in nome degli insegnamenti di Gesù Cristo. E se lo fa, perché dovrebbe avere maggiormente a cuore il sentimento di insicurezza di un fiorentino o un bolognese che si preoccupa dell’invasione degli immigrati, rispetto alle sofferenze di denutrizione di uno che vive in Bangladesh?

Certo, ogni vita è una vita, ogni dolore è un dolore, non si fanno graduatorie di sofferenza quando si riflette o si prega, quando si accoglie qualcuno, ma quando si tratta dell’azione, allora anche per chi opera nella Chiesa torna utile l’approccio paretiano, dare, cioè, le giuste priorità, determinate dalla gravità delle tragedie che affliggono i fratelli nel mondo.

Personalmente trovo più intellettualmente onesti certi personaggi, spesso autodefiniti di destra, che vivono nelle periferie di Roma, che affermano il loro “mors tua vita mea” (anche se poi può succedere che trovi maggiore generosità sociale tra questi, siamo il paese dei paradossi), piuttosto che certi intellettuali di sinistra, che, pur rimanendo attaccati a questa etichetta costruiscono teorie che giustificano il loro comportamento individuale ricollocandolo nella giusta morale, quella della carità, del buon sentimento, dell’accoglienza del diverso, che, però, non deve mai essere nominato come diverso. Sempre che stia al suo posto o almeno sia grato che lo considerano meglio di altri.

Certo che non è sufficiente questa mia preferenza di coerenza per abbracciare l’italocentrismo di destra, che trovo claustrofobico, moralmente insopportabile e portatore di una vita noiosa, senza aspirazioni ideali di cambiamento, cercando di difendere quella vita sicura, in cui si mangia, beve, dorme, si emettono flatulenze, si amoreggia, ci si sente importanti. Una vita nobilitata dall’impegno verso la propria famiglia, la crescita e l’educazione dei figli, che dà un senso e rende tutto meno che noiosa l’esistenza. Anche se, a dire il vero, quel vivere con coerenza all’insegna del “mors tua vita mea” non mi sembra una pedagogia troppo stimolante. Ma certo neppure mi stimola troppo lo sguardo intellettuale di quella sinistra rinchiusa nelle proprie comfort zone, molto rivolta al proprio ombelico è poi così appassionante e, forse altrettanto claustrofobica e pure immorale. Alla fine, mi viene da pensare di essere un apolide politico, che, forse, è un’altra categoria, dopo quella dei qualunquisti: quello, l’apolide politico, che non trova una forma politica per promuovere la condivisione delle proprie idee.

Sarà forse anche per questa incoerenza delle narrazioni morali rispetto ai propri comportamenti che la forza politica dei progressisti si sta riducendo, o forse noi, visto che l’incoerenza tra pensiero e azione regna sovrana e non è confinata in alcuna parte politica, almeno qui in Italia.

Basti citare la distanza tra l’universalità delle cure sanitarie e i relativi diritti, sanciti dalla nostra Costituzione, in cui le leggi e i decreti, a partire dalla nascita delle Aziende sanitarie e dal condizionare l’appropriatezza delle risposte terapeutiche alle risorse disponibili, sembrano far emergere un altro tipo di incoerenza, quella costituzionale.

Incoerenza inutile se lo scopo di dimenticare i principi di base fosse quello di risparmiare non pagando il costo necessario a far rispettare quei diritti. Si dimostra, infatti, che limitare l’impegno ad accertamenti e cure preventive solo a chi è in grado di contribuire alle spese sanitarie aggrava il costo della sanità, per l’aumento dei costosi accessi al pronto soccorso. Forse dovremmo spingerci anche nel campo della salute a quella coerenza brutale del “mors tua, vita mea”, accettando le morti dei più fragili e degli indigenti, come il male necessario? No, forse è meglio per tutti, destra e sinistra che sia, un po’ di incoerenza, pur di tenere fermi, almeno nelle dichiarazioni, i principi etici costituzionali, per evitare di istituzionalizzare lo sfascio del sistema dei diritti in cui siamo cresciuti.

O forse meglio ancora sarebbe rivedere quelle leggi che derogano ai principi su cui si basa la nostra Costituzione, per salvare il sistema sanitario pubblico, che, se funzionasse come dovrebbe, questo sì, dovrebbe essere un punto di orgoglio italico. Good morning Vietnam.

 

 

(10 agosto 2024)

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