Il senatore Potente o del desiderio di esserlo, ha depositato una disegno di legge per abolire termini quali “sindaca”, “questora”, “avvocatessa” e anche “rettrice” per difendere la lingua italiana. La proposta arriva anni dopo quella che proponeva l’insegnamento del veneto nelle scuole della Regione, a dimostrazione per che per certi leghisti l’italiano è solo e soltanto un’opinione. Perché, il Potente si stupirà, termini quali “sindaca”, “questora”, “avvocatessa” e anche “rettrice”, sono propri della lingua italiana. In altre lingue si scriverebbero addirittura diversamente, quando si dice la cultura.
Ora ci si chiede quanto dovrà passare perché un altro, l’ennesimo, illuminato leghista proponga di rendere le donne invisibile per la salvaguardia del maschio italiano, o di proibire le lasagne per salvaguardare il tortello.
Scrive Repubblica che “il progetto normativo, intitolato “Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere”, ha l’obiettivo dichiarato di “preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici dai tentativi ‘simbolici’ di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo”. L’articolo 2, in particolare, prevede che “in qualsiasi atto o documento emanato da Enti pubblici o da altri enti finanziati con fondi pubblici o comunque destinati alla pubblica utilità, è fatto divieto del genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, ed agli incarichi individuati da atti aventi forza di legge”. Al successivo articolo 3 si pone il “divieto del ricorso discrezionale al femminile o sovraesteso od a qualsiasi sperimentazione [sic] linguistica”, ricordando che “è ammesso l’uso della doppia forma od il maschile universale, da intendersi in senso neutro e senza alcuna connotazione sessista”. Nel quarto e ultimo articolo, dedicato alle sanzioni si legge che “la violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 1.000 a 5.000 euro”.
Dicono i benissimo informato che la demenziale proposta si stata sbugiardata dagli stessi leghisti, delle cui argute opinioni sulla questione non abbiamo avuto, fino ad ora, notizia alcuna. E non stiamo dicendo che non ce ne siano in giro. Solo che tocca cercarle. In più si ha la sensazione, ma è una boutade, che l’unica salvaguardia possibile per la lingua italiana sia impedire, per legge, a certi leghisti di perpetrarla, un dettaglio trascurabile.
Poi i generalissimi ordinano il ritiro del Ddl che non è “condivisibile” ed è frutto di “un’iniziativa personale”, con consiglio di consultare la Treccani e di attenersi ai contenuti. Sembra un battuta.
(22 luglio 2024)
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