di Vittorio Lussana
L’approvazione dell’autonomia differenziata nelle forme più superficiali e propagandistiche che si potessero pensare, ci induce a riflettere in merito ai miasmi subculturali che animano il Paese. Infatti, paradossalmente, con le destre al potere si acuisce, anziché diminuire, la questione culturale e identitaria italiana: un Paese allo sbando, ingiusto e antimeritocratico per definizione.
Quando si parla della cultura di un Paese, infatti, generalmente si pensa a una categoria composta di professori, scienziati, scrittori, politici, letterati, registi cinematografici, artisti e musicisti. Ma le cose non stanno così: quando si parla della cultura di un popolo non si fa riferimento esclusivo alla sua intellighentia, né al patrimonio di conoscenze popolari di operai e contadini, né tantomeno al nazionalismo di un Gioacchino Volpe, di un Gabriele D’Annunzio o di un Giovanni Gentile. La cultura di una nazione corrisponde esattamente alla somma di tutte queste ricchezze spirituali. Anzi, ragionando statisticamente, essa è la loro media ponderata.
Tutto ciò significa che la cultura di un popolo rappresenta un concetto astratto, non sempre riconoscibile sotto il profilo antropologico, che tuttavia produce una serie di conseguenze pratiche. Per molto tempo, le nostre culture hanno infatti proposto una serie di valori storicamente distinguibili tra loro. Ma questo genere di distinzioni hanno dovuto cedere il passo a un processo di omologazione mediatica che non ha realizzato affatto l’ideale di un nuovo potere, bensì ha resuscitato quello più vecchio possibile.
A molti potrà sembrare paradossale quanto andiamo affermando: un nuovo potere che ne realizza uno talmente vecchio che nessuno riesce più a riconoscerlo. Proviamo allora ad analizzare alcune caratteristiche di questo nuovo/vecchio potere: a) il suo rifiuto ad ammettere che possano esistere diverse metodologie democratiche e di governo ad un tempo efficaci e rispettose del valore delle diversità; b) il ritorno a un confessionalismo controriformista, che utilizza strumentalmente ogni mezzo per continuare a mantenere una costruzione teologica ben precisa, pur di tenere in piedi dogmi, paradigmi e discriminazioni; c) la determinazione mediatica nel voler appiattire tutti i cittadini su un modello statico di società, resuscitando il modello composto dalla triade “Dio, Patria e Famiglia”, annullando la base stessa di ogni forma di dialogo civile e sociale.
Questo nuovo/vecchio potere attribuisce a se stesso alcuni tratti moderati sulla base, però, di un’ideologia sostanzialmente edonistica, che mantiene nel proprio seno numerosi elementi autoritari. La sua tolleranza, quando c’è, è falsa, poiché in realtà nasconde una fredda e calcolata determinazione a preordinare ogni cosa. Dunque, questo nuovo/vecchio potere altro non è che una forma modernizzata di clerico-fascismo, che pone tutto e tutti sul medesimo piano, strumentalizzando anche le idiozie più degeneri e indegne.
Esso non butta via niente di ciò che può tornargli utile: le varie forme di censura contro uno scrittore scomodo; le intimidazioni psicologiche nei confronti dei giornalisti e del mondo dell’informazione; le percezioni subliminali di forza formale che si determinano nei dibattiti televisivi, durante i quali sembra aver ragione chi urla più forte, chi esprime la battuta più efficace, chi riesce a farsi giuoco non solamente dei torti della controparte, ma anche delle sue ragioni.
Gli sta bene tutto, a questo nuovo/vecchio potere: dal bianco al nero, dal giorno alla notte, dal sole alla luna, dal qualunquismo populista al classismo borghese. Tale processo si chiama omologazione: la parola mantiene in sé un fondamento repressivo, di integrazione forzata a una morale preconfezonata, di adesione incondizionata a un modello di società interamente rivolto all’oggi, come quelle tardone che lottano disperatamente contro il tempo che passa e quelle rughe che, immancabilmente, sorgono sui loro volti. Non è nemmeno il ritorno all’edonismo un po’ ingenuo del socialismo della Milano da bere o della Roma di notte, una sorta di joie de vivre discotecara, di discendenza demichelisiana più che craxiana. No: si tratta di un clerico-fascismo incapace, che non incarna alcun progetto, che risulta privo di una qualsiasi idea futuribile di società, che non è neanche retorico nella sua essenzialità umanistica, poiché divenuto un tutt’uno con la sua stessa piattezza ideologica, le cui finalità corrispondono alle sue metodologie. Quelle, per l’appunto, di un’omologazione priva di contenuti, che vorrebbe costringerci ad una strana forma di ninfomania psichiatrica, in cui ogni atto deve essere compiuto per il semplice gusto di farlo.
Si tratta di un paradosso che ha origine dalla negativa funzione mediatica svolta dalla televisione e dalla mancata regolamentazione del suo mercato. Per dirla tutta: proviente da colpe ed errori ascrivibili soprattutto alla cultura progressista, che non ha voluto comprendere come questo genere di impulsi generalisti spingessero l’intera collettività a sbandare da un capo all’altro di ogni suo problema e di ogni suo versante, rimodulando e ripresentando le più consuete contraddizioni tra teoria e prassi, tra cause ed effetti, tra atti e fatti, senza mai riuscire a trovare soluzioni definitive ed efficaci.
In questo potere paradossale, se non surreale, non esiste più alcun valore, più alcuna distinzione. Anzi, dell’ormai antico nesso crociano non se ne conosce nemmeno la possibilità di utilizzo in quanto strumento analitico. Al contrario, con la forza dei propri mezzi di disinformazione e di dissuasione, questo nuovo/vecchio potere pretende di poter affermare e, al contempo, negare, ogni principio di uguaglianza e di solidarietà, escludendo la società dall’esercizio democratico: eccola qui la vera causa del forte astensionismo elettorale.
Siccome però è la forza della materialità è quella che, in un modo o nell’altro, alla fine prende il sopravvento, ecco che ciò che in teoria viene considerato moralmente negativo, se non addirittura malvagio, diviene il vero messaggio di fondo, attraverso un rivolgimento concettuale talmente di retroguardia da non riuscire a individuare alcunché di realmente costruttivo o edificante. La si può raccontare come la si vuole, ma dietro le quinte di simili contorsioni ideologiche, che stanno letteralmente facendo il diavolo a quattro all’interno della società italiana vi è una sola presenza, un’unica ombra inquietante: quella della Chiesa cattolica. La quale non chiede nemmeno un’osservanza fiscale ai propri princìpi, bensì la semplice affermazione edonistica di essi. Il vero messaggio di fondo, ovvero quello effettivamente culturale tanto per rimanere nel solco del presente articolo, è che ognuno, nei limiti di ciò che è moralmente consentito, sia libero di fare ciò che vuole a patto di non determinare comportamenti potenzialmente capaci di trasformarsi in nuovi princìpi pubblici, in grado di ledere il suo magistero più integrista.
Ecco, dunque, il vero volto di questo nuovo/vecchio potere: quello del clericofascismo. Il quale, al contrario di quanto si pensa e si afferma, non è altro che mero giustificazionismo relativista, poiché quasi tutto può essere concesso allorquando ne esistono, appunto, le giustificazioni. Ma di giustificazione in giustificazione, si giunge a una tolleranza falsa, utilitaristica, una presa per i fondelli individuale e collettiva che finisce con l’assecondare una deriva meschina della società, nell’illusione, tutta ideologica, di poter riuscire a fermare il tempo, il mondo, l’intero universo.
Nel clericofascismo non esiste alcun genere di distinzione qualitativa: l’opinione della maggioranza, anche la più becera, vale più di quella della minoranza. Senza calcolare minimamente che ciò si traduce in assemblearismo popolare rousseauiano, ovvero in giacobinismo: una sorta di comunismo ante litteram imposto dall’alto. Nell’assecondare un simile processo omologativo, il fronte progressista ha le sue piene responsabilità, poiché anch’esso non produce più alcun sistema alternativo di società da proporre ai cittadini. Al contrario, la sua adesione ai modelli imposti è risultata, spesso, totale e incondizionata, poiché rifiuta di comprendere come si stiano rinnegando quei valori culturali laici fondamentali per uno sviluppo equilibrato di una moderna società.
Questo mostro clericofascista, a cui è stato dato un sostanziale via libera, sia nelle sue tradizionali forme demagogiche, sia in quelle più tradizionaliste e tribali, si aggira indisturbato nei meandri della nostra società diffondendo autentici spettri antisociali, etichettando a casaccio intere categorie di persone, esplorando ossessioni e frustrazioni che fanno man bassa di ogni assurdità, nel vivo ed esclusivo desiderio di trovare un colpevole qualsiasi su cui scaricare ogni responsabilità – il ’68 o, addirittura, la rivoluzione francese – pur di non ammettere la propria incapacità di adattamento a una società secolarizzata e la propria mediocrità antropologica e culturale.
Si tratta di un’ubbia: l’ignoranza che sale al potere. La rivoluzione francese, tanto per fare un esempio, viene citata solamente per ricordare i 35 mila ghigliottinati durante il periodo del Terrore, dimenticando che essa ha spodestato il potere aristocratico della nobiltà terriera – al fianco della quale il clero era regolarmente schierato (!) – innervando con i suoi princìpi tutte le più moderne Costituzioni democratiche occidentali, nonché mettendo in campo un vero e proprio gigante filosofico, quello del liberalismo civile e sociale, che aveva saputo, in qualche modo, affrancare buona parte dell’umanità dall’oscurantismo religioso e dalla schiavitù contadina.
Identici manicheismi vengono applicati nell’interpretazione del movimento studentesco del ‘68: esso non viene analizzato nella sua complessità storico-sociale, nelle sue cause e contraddizioni, nel tipo di società, più libera e aperta, che è riuscito a produrre, ma come semplice prodromo del terrorismo eversivo di estrema sinistra e di ogni genere di lassismo puramente soggettivo e circostanziale. Insomma, stiamo parlando di uno spaventoso tracollo verso la più totale inculturazione, che dimostra lacune abissali su quanto storicamente accaduto, che non possiede gli strumenti per comprendere e interpretare nulla di quel che succede, di un revanchismo provinciale e piccolo borghese innestato a viva forza in un unico calderone di audience mediatica totalmente priva di scrupoli e di ogni qualsivoglia strategia tesa a renderla riconoscibile, individuabile, misurabile, fattuale.
Se vi fossero le condizioni per misurare effettivamente i risultati di molti provvedimenti risulterebbe molto più semplice esercitare, da parte dello Stato–comunità, un effettivo potere di controllo sui risultati e, soprattutto, sui non risultati dello Stato–Governo. Ma ciò è proprio quel che non si vuole, sia dalla parte del clericofascismo populista, sia dal burocratismo neo-democratico: che i cittadini possano controllare veramente gli esiti di una riforma qualsiasi; che la nostra comunità possa crescere concretamente e, allo stesso tempo, maturare spiritualmente; che tutta la collettività possa comprendere fino in fondo le turlupinature ideologiche alle quali viene sottoposta.
Una società senza valori sta giocando la sua ultima, disperata, partita contro la democrazia: prima ce ne rendiamo conto e meglio sarà per tutti.
(21 giugno 2024)
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