di Vittorio Lussana
La docente di filosofia presso l’Università La Sapienza di Roma, Donatella Di Cesare, è stata prosciolta dal giudice monocratico del Tribunale penale di piazzale Clodio dall’accusa di diffamazione nei confronti del ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, che l’aveva querelata per averlo accostato a un “governatore neohitleriano” in seguito delle sue stravaganti teorie sulla “sostituzione etnica”. In pratica, il magistrato ha deciso il “non luogo a procedere”: una decisione che noi giudichiamo ineccepibile, a differenza della querela mossa dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nei confronti del professor Luciano Canfora, per averla definita “una neonazista nell’animo”.
La divaricazione tra queste due distinte decisioni – il non luogo a procedere per la professoressa Di Cesare e il rinvio a giudizio del professor Canfora – è apparsa come un vero e proprio mistero giuridico in molti ambienti del centrodestra italiano: e perché mai? Proviamo a spiegarlo.
La differenza tra un mero accostamento, cioè tra un paragone in quanto parallelo storico, rispetto all’accusa di nutrire sentimenti suprematisti e razzisti, dovrebbe esser chiara. Invece, in molti ambienti del centrodestra non lo è: una forma di ignoranza che ci preoccupa assai più della querela in sé, in quanto limpido segnale di mancanza di cultura democratica. In pratica, nelle future diatribe sul premierato, tanto per fare un esempio, il dibattito potrebbe risultare viziato da diverse forme di intimidazione e autocensura indotte dal rischio delle cosiddette querele temerarie nei confronti di chi si porrà sul fronte del dissenso, comprimendo il diritto di critica. Infatti, la totale mancanza di ogni nesso crociano della distinzione nel discernere le due fattispecie non rappresenta una semplice sfumatura giudiziaria, bensì rende pienamente il senso del vuoto culturale di cui le destre italiane, anche quelle che si dicono ispirate da princìpi liberali, evidentemente soffrono.
In buona sostanza, anche chi si definisce liberale non sembra in grado di porre un argine alle eventuali incontinenze provenienti da destra, giustificando ogni opportunismo, il proprio e quello altrui. Un modo di ragionare totalmente utilitaristico, che tende a sovrapporre apparenze sbagliate o astratte con giudizi sostanziali su individui e persone. Insomma, c’è il rischio di trascendere nell’attacco personale, anziché inscenare un confronto tra le idee, scambiando tale sommatoria qualunquista e populista per un risvolto della volontà popolare.
L’analista politico – giornalista, scrittore o intellettuale che sia – prende le mosse da una coordinata deontologica ben precisa: semplificare il proprio linguaggio per essere compreso “dall’uomo della strada”, che dunque viene concepito come un soggetto privo di strumenti e categorie culturali. In pratica, nei Paesi anglosassoni, che sono la vera patria delle culture liberali, la distinzione tra liberalismo e qualunquismo, cioè tra filosofia e mera opinione completamente priva di qualsiasi riferimento di principio, risulta netta e ben definita, mentre qui da noi non lo è affatto: si scambia per liberalismo ciò che è semplice populismo propagandistico, totalmente privo di radici.
Noi non crediamo si tratti di una volontà polemica da parte delle destre italiane, ma di una vera e propria incapacità: un paragone come quello espresso della professoressa Di Cesare non dovrebbe essere confuso con un giudizio sostanziale sulla persona del ministro Lollobrigida. E chi propone una querela su tali basi non intende difendersi da un’accusa sostanziale verso la propria persona come nel caso di Giorgia Meloni, la quale, pur definendosi “una donna del popolo” – come dice spesso – non ha mai teorizzato classificazioni verticiste tra razze o etnie, né ha mai espresso sentimenti irrazionali di sterminio nei confronti di una categoria etnica, religiosa o somatica ben precisa. La presidente Meloni, insomma, è solamente espressione di una destra dirigista, contraddittoria quanto si vuole, ma qui ci si ferma. Invece, il ministro Lollobrigida sta dimostrando di essere un personaggio ridicolo, non all’altezza del ruolo istituzionale che egli ricopre. E questo potete anche considerarlo un giudizio di sostanza da parte nostra. Di sostanza politica, ovviamente: non personale.
Il problema che a noi appare evidente è la sintesi che viene fatta tra apparenza e sostanza: un sembrare, o anche il semplice ricordare, un “governatore hitleriano” corrisponde, per le nostre destre, a un giudizio di merito, che finisce con l’impedire ogni confronto proprio nel merito. Una sovrapposizione potenzialmente in grado di mettere in forse persino le rappresentazioni teatrali o cinematografiche, perché un attore è naturalmente costretto ad aderire il più possibile al ruolo che esso interpreta, anche quando si tratta di un personaggio moralmente discutibile.
Quest’ultimo potrà forse sembrare un esempio-limite, da parte nostra (e infatti lo è, sia ben chiaro), ma non così distante dalla topica che il ministro dell’Agricoltura ha preso nell’intentare la sua denuncia-querela contro la Di Cesare. Una studiosa spesso assai distante anche dalle nostre posizioni e convinzioni, avendo commesso, a nostro parere, numerosi errori di valutazione ai tempi dell’invasione russa dell’Ucraina. Purtuttavia, questa volta la Di Cesare si è ritrovata dalla parte della ragione: un vero e proprio miracolo, quello compiuto dal ministro Lollobrigida.
Insomma, affermare che un ministro stia ragionando, in un preciso momento, secondo i parametri di un nazista non presuppone che esso lo sia. Mentre nel caso di Giorgia Meloni, il professor Canfora lo ha detto espressamente: “Giorgia Meloni è una nazista nell’animo”, cioè interiormente. Questa differenza dovrebbe esser chiara ed evidente. Ma se si dimostra una simile incapacità a distinguere questi due casi, si commette un errore che pur risultando perdonabile per “l’uomo della strada”, sprovveduto per definizione, per un esponente politico investito da incarichi esecutivi e di governo non lo è. Su questo punto, infatti, s’innesta uno scollamento pericoloso in termini di responsabilità politica, perché si finisce col professare una concezione totalmente sganciata da ogni interesse nazionale e dallo Stato di diritto.
Un difetto, quest’ultimo, che non risulta grave quando parliamo del ministro Lollobrigida, completamente astemio da simili cavilli dottrinari (che tanto cavilli non sono), ma lo è per chi si autodefinisce “liberale” in questo Paese, poiché colpevole, per l’ennesima volta, di minimizzare o addirittura di negare l’incultura delle destre populiste, lasciando loro campo libero. Ciò nella convinzione, probabilmente, di poterle controllare o contenere: un errore di valutazione gravissimo, già commesso nei primi anni ’20 del secolo scorso e che si continua a replicare.
Tutto questo impedisce da sempre la rinascita di una nuova e più moderna cultura liberale, in Italia: è inutile che Pierluigi Bersani, o la stessa professoressa Di Cesare, oggi li vadano a cercare. Non ci sono più i liberali, qui da noi: non esistono sin dai tempi di Giovanni Giolitti. Essi sono morti, punto e basta. Esistono solamente dei libertini inviperiti che, ogni volta, tengono ferma la scala ai fascisti.
E’ totalmente inutile che si cerchino i liberali come avvocati difensori. Totalmente a gratis, oltretutto: un punto, quest’ultimo, che ci teniamo a ribadire fermamente.
(17 maggio 2024)
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