di Claudio Desirò
Di “campo largo” si parla ormai quotidianamente da tempo e, sempre da tempo, quando lo si ritrova alla prova delle urne, i risultati sono sempre gli stessi.
Settimane di litigi, di conventio ad excludendo che pseudo leader minimali vorrebbero imporre, salvo saltare nella fazione opposta, e di scontri tra ego più ingombranti della dote elettorale che si vorrebbe rappresentare, che si concludono immancabilmente con una non-proposta elettorale raffazzonata ed irrimediabilmente perdente alla prova dei fatti. Sconfitte analizzate, in modo certosino, senza mai arrivare all’unica conclusione possibile: mettere insieme tutto ed il suo contrario, al grido di “tutti uniti contro” ed al solo scopo di “battere il nemico”, porta a S-battere contro l’amara realtà.
Una pratica, per la verità, nata insieme alla Seconda Repubblica quando, all’indomani del giustizialismo politico e mediatico messo in atto dalla Magistratura rossa, Silvio Berlusconi scese in campo per arginare la deriva antidemocratica che si stava affacciando nel nostro Paese.
Altri tempi, altri contesti, altri risultati e, soprattutto, altri protagonisti ed una coalizione che è durata nel tempo e che, seppur con alcune divisioni interne, è riuscita e riesce a proporre una visione di Paese ed un programma di Governo unitario, col quale concordare o meno. Ma c’è.
Dall’altra parte, invece, l’accozzaglia di partiti e partitini, di leader e leaderini, di filoni di pensiero contrastanti e di posizioni, spesso, reciprocamente opposte, porta alla rappresentazione di un non-contenitore in cui va bene chiunque, purchessia. Con buona pace della “buona politica”, della possibilità reale di amministrare o governare, semmai si arrivasse a risultato, e di quei valori di coerenza ed onestà intellettuale che sono diventati merce più unica che rara in un contesto in cui si insegue più la logica del poltronismo, piuttosto che quella della credibilità.
Unirsi seppur profondamente divisi pur di riuscire a centrare un risultato elettorale, come tanti piccoli comitati elettorali del singolo candidato, o per superare il fantomatico quorum e riuscire a sopravvivere, ancora, fino all’elezione successiva.
Un’armata Brancaleone che si scioglie come neve al sole e con accuse reciproche all’indomani di ogni appuntamento elettorale e che, in prossimità di quello successivo, si coalizza nuovamente, sulla carta, con il solo punto programmatico comune: “battere le destre”. Come se questo fosse sufficiente a convincere gli elettori di essere in grado di proposte concrete. Infatti, oltre al voto strutturato delle singole basi, che si muovono come gruppi di supporto del singolo candidato d’area, il voto degli indecisi non viene convogliato, mentre si allarga sempre più la quota degli astenuti.
E proprio la percentuale di astensione ha prodotto una nuova chicca nelle analisi post voto della sinistra sconfitta: Sardegna ed Abruzzo hanno prodotto lo stesso dato, ma mentre in Sardegna la coppia PD-M5S ha centrato l’elezione del nuovo Governatore (per meriti, anzi preferenze, proprie, non certo di partito) e, quindi, dell’astensionismo non si sono occupati, in Abruzzo coloro che non hanno votato sono stati additati come colpevoli della sconfitta. Perché i colpevoli devono sempre essere altri. Certo, ammettere che la scelta di unire populismo ed antipopulismo, pseudo riformismo e sinistra radicale, movimenti contrari alle opere pubbliche e dediti all’assistenzialismo d’accatto con chi, a parole, si professa liberale e liberista, non sia un’idea geniale e comprensibile, sarebbe assumersi la responsabilità di una sconfitta bruciante. E questa responsabilità nessuno, come sempre, se la vuole prendere.
Unire in una coalizione atlantisti e terzomondisti, pro-Putin e filo ucraini, pro-Hamas e chi non ha mai fatto mancare il proprio sostegno ad Israele, insomma unire tutto e di più in un pot-pourrì completamente disunito nell’attualità contemporanea e che nasce, evidentemente, al solo scopo di occupare posizioni di potere, significa costruire una scatola vuota di valori, di intenti, di progetti.
E, nonostante il fumo negli occhi che si vuole gettare tra analisi fantasiose e proclami datati e superati, risulta evidente che un campo largo e largamente vuoto continua a risultare un progetto privo di basi concrete, se non quella di inseguire l’occupazione di un qualche posto istituzionale, unico vero punto in comune di un centrosinistra ormai impresentabile. Centrosinistra, o meglio sinistra-centro, prigioniero del populismo radicale di PD e 5 Stelle, al cui altare si sacrificano ciecamente i sedicenti rappresentanti del centro, che centro non è, primedonne che si agitano e si contorcono nella speranza di non passare inosservati, come dovrebbe invece essere per mancanza di voti, di basi o di contenuti, alla costante ricerca della sopravvivenza politica fine a se stessa, nonostante la retorica dei grandi fini e dei sontuosi progetti.
(15 marzo 2024)
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