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HomeGiustappunto!La comprensibile “nostalgia” per Enrico Berlinguer (e le persone serie in generale)

La comprensibile “nostalgia” per Enrico Berlinguer (e le persone serie in generale)

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di Vittorio Lussana

Sento – e soprattutto vedo – in circolazione molta nostalgia per gli anni del tentativo berlingueriano di mettere un po’ d’ordine nelle vicende politiche italiane. Ma come al solito, la nostalgia gioca brutti scherzi: nessuna autocritica viene rivolta nei confronti di quel decennio. E senza una sana autocritica, gli antichi dubbi rimangono, in questa buffa opinione pubblica italiana. Quindi, ripropongo una mia versione dei fatti, ribadendo come gli anni ‘70 del secolo scorso siano stati un decennio orrendo, in cui lo scontro politico fu feroce, a tratti isterico, ben sintetizzato dal titolo che Sergio Zavoli volle dare alla sua approfondita inchiesta sugli anni di piombo: la notte della Repubblica.

Nel decennio 1960-1969, il Partito comunista italiano si era ritrovato nelle condizioni di dover reagire alla grave crisi di leadership venutasi a creare dopo la scomparsa di Palmiro Togliatti, avvenuta nel 1964. Fu allora che cominciò a emergere la figura di Enrico Berlinguer. Prima di diventare vicesegretario e poi segretario nazionale del Pci, il leader sassarese aveva studiato le caratteristiche fondamentali degli elettorati comunista e democristiano. E aveva scoperto come questi non fossero poi così dissimili.

Gli iscritti al Pci erano per il 39% operai, per il 13% braccianti, per il 16% contadini, per il 5% artigiani e commercianti, per il 3% impiegati e intellettuali, per il 13% casalinghe e per il 7% pensionati. La Dc, a sua volta, era composta per il 17% da operai, per il 5% da braccianti, per il 16% da contadini, per il 7% da artigiani e commercianti, per il 22% da impiegati, per il 25% da casalinghe e per il 6% da pensionati. Pertanto, secondo Berlinguer, si trattava di due Partiti che condividevano “un’anima profondamente ed eminentemente popolare”. E su tale base iniziò a elaborare una propria teoria, esposta per la prima volta nell’opuscolo: ‘Riflessione dopo i fatti del Cile’, pubblicato nel 1973.

Berlinguer era un uomo nuovo, poiché non apparteneva, da un punto di vista generazionale, alla leva comunista uscita dalla Resistenza, mentre le sue origini di matrice familiare erano schiettamente laiche e liberaldemocratica (il padre, Mario, era stato un dirigente del Partito sardo d’azione). Di carattere schivo, anche a causa di una certa timidezza, egli aveva subìto l’influsso di periodici cattolico–comunisti, quali ‘Dibattito politico’ di Mario Melloni e Ugo Bartesaghi o come la ‘Rivista trimestrale’ di Claudio Napoleoni e Franco Rodano.

In estrema sintesi, la tesi predisposta da Berlinguer era la seguente: come la tragica fine di Salvador Allende in Cile aveva dimostrato, uno Stato capitalista non poteva essere governato con il 51% dei voti o con maggioranze composite e risicate. Occorreva, dunque, una vasta confluenza di forze tra loro compatibili per il loro comune radicamento sociale – Dc, Pci e Psi – le quali sacrificassero una parte delle proprie aspirazioni, addivenendo a un “compromesso storico”, in nome del risanamento economico, della solidarietà nazionale e della necessità di una nuova etica civile.

L’uso dell’aggettivo “storico” configurava, da una parte, l’archiviazione di molta zavorra ideologica: dalla teoria leninista sulla distruzione del sistema capitalistico, alla tesi gramsciana dell’alleanza tra contadini e operai; dall’altra, sul piano strettamente politico, l’ossimoro si presentava come l’inizio di un nuovo corso, che portava a compimento la vecchia strategia togliattiana della mano tesa ai moderati, da tempo predisposta dall’ala intellettuale dei comunisti cattolici che faceva riferimento ad Adriano Ossicini e, soprattutto, a Franco Rodano.

Nella sua relazione al Comitato centrale del Partito comunista italiano, Berlinguer lo spiegò nitidamente: “La politica del compromesso storico, da una parte è qualcosa di più di una nuova formula di Governo, dall’altra vuole essere, già oggi, l’indicazione di un metodo di azione e di rapporti politici che, mentre contribuiscono ad agevolare la soluzione di problemi urgenti, sospingono i Partiti e le forze democratiche, nelle istituzioni rappresentative, in altre sedi e in tutto il Paese, a cercare la comprensione reciproca e l’intesa”. L’ascendenza rodaniana di queste considerazioni era più che mai trasparente: il disegno era quello di una società organica, in cui la mediazione e la “comprensione” avrebbero dovuto annullare, sistematicamente, ogni conflitto, ogni problema, ogni scontro, la stessa lotta di classe…

Forse poche volte, nel corso della Storia, un gruppo dirigente commise un errore così grave come quello che fece il Pci, allorquando adottò il compromesso storico come propria linea politica generale. E già alla fine di luglio del 1976 se ne videro le conseguenze, quando la Camera dei deputati incoronò Giulio Andreotti presidente del Consiglio di un governo monocolore democristiano, benevolmente atteso dal Pci, sopportato da tutti per un anno e sostituito, l’anno successivo, da un altro monocolore Andreotti, con maggioranza esapartitica, divenuta poi pentapartitica per il ritiro dei liberali.

Sia ben chiaro: nella condizione di non poter disporre neppure di un sottosegretario alle Poste e costretto, per propria deliberata scelta, tra le spire immobiliste della Dc, il Pci tentò comunque di dare la stura ai più improbabili propositi di austerità economica, a nuovi modi di governare, a nuovi modelli di sviluppo sociale. Ma dietro ognuna di queste espressioni non vi era il benché minimo progetto per un fare realistico, la benché minima idea di come quelle cose potessero essere realizzate insieme alla Dc.

L’attività legislativa del triennio 1976–1979 fu, a dir poco, miserevole per quantità e qualità, poiché partorita dopo negoziati sfibranti, estremamente nervosi, come regolarmente capita quando una parte dubita della buona fede dell’altra. Le misure economiche di austerity non andarono oltre una riduzione delle festività civili e religiose, una parziale disincentivazione della scala mobile e un blocco, anche questo assai parziale, delle indennità di buonuscita. Il tutto, in un quadro complessivo di durissima crisi fiscale, con un fabbisogno tributario pari al 13% del reddito nazionale (contro il 4,5% degli anni ’60), di gravissimo indebitamento da parte dello Stato e di inflazione in caduta libera (nel 1980 si arrivò a sfiorare il 22%). Il che si tradusse in un obbligo a provvedimenti aspri, di totale rinuncia alla crescita.

L’abbaglio di Berlinguer non fu tanto quello di aver tratteggiato una democrazia consociativa, poiché coalizioni anche molto composite avevano guidato Paesi come l’Olanda, il Belgio, l’Austria e la Germania, scossi da tensioni etniche e religiose notevolmente più acute di quelle dell’Italia, bensì nell’aver immaginato una consonanza quasi perfetta fra le diverse subculture storiche di Dc e Pci e le domande sociali che questi due Partiti esprimevano; nell’aver postulato una docilità naturale delle istituzioni e della burocrazia statale; nell’aver giudicato insignificante la questione degli uomini chiamati a tradurre in opere concrete ogni ipotesi politica. Invece, sia la Dc, sia lo stesso Pci, possedevano un corpo ben altrimenti vorace, rispetto alla frugale anima popolare che sostenevano di ospitare, mentre gli apparati amministrativi dello Stato non si rivelarono affatto disponibili o neutrali.

Detto ciò, non intendo affermare che i cosiddetti governi di solidarietà nazionale siano stati totalmente abulici, quanto piuttosto che ogni provvedimento di riforma varato in quella fase finì con lo scontare, nel passaggio dalla teoria all’applicazione, una serie di dirottamenti e di intralci che li fecero apparire frutto di demagogia o di prese di posizione meramente ideologiche, mentre invece si trattava di faticosi tentativi di riordinare alcuni settori della vita collettiva in cui imperavano retaggi quasi atavici d’inciviltà giuridica e morale. Così avvenne, tanto per citare un caso, con la normativa n. 180 del 1978, la cosiddetta legge Basaglia, la quale impose la chiusura dei manicomi al fine di affidare l’assistenza psichiatrica dei malati di mente ad apposite strutture territoriali. Ebbene, la norma finì col venir disattesa proprio nella sua parte costruttiva e assistenziale. E la cura dei pazienti cronici venne brutalmente scaricata sulle famiglie, col semplice risultato di diffondere nella società un’insana nostalgia verso il manicomio: un microcosmo orripilante, che ha sempre e ipocritamente permesso ai cosiddetti sani di distogliere il proprio sguardo dal doloroso pozzo delle patologie mentali.

Insomma, nel giro di tre anni, il tentativo del Pci finì col naufragare in un mare di tragedie legislative, umane e politiche (riforma della Rai, rapimento e uccisione di Aldo Moro, recrudescenza del fenomeno terrorista di destra e di sinistra, riforma del sistema sanitario nazionale, riforma della normativa sugli affitti). Berlinguer dovette quindi constatare come l’esperimento della solidarietà nazionale si fosse rivelato insoddisfacente. E decise di passare dal compromesso storico alla strategia della “alternativa democratica”, cioè alla costituzione di un largo fronte politico progressista in grado di mandare la Dc all’opposizione. Ma nelle more di un simile progetto diveniva giuoco forza necessario fare i conti con il Psi e con il suo nuovo leader, Bettino Craxi: un esponente che stava cominciando a dimostrare tutta la propria ragguardevole statura.

Craxi non aveva alcuna intenzione di lasciarsi logorare nel ruolo di comprimario della grande forza elettorale comunista. E riteneva che il Pci stesse teorizzando un ripiegamento operaista, che rischiava di preludere a gravissimi errori. Cosa che regolarmente accadde durante il voto parlamentare del 12 dicembre 1978, allorquando il Pci decise di affondare l’intera maggioranza parlamentare avversando l’adesione dell’Italia al sistema monetario europeo, nonostante Bruxelles avesse garantito alla vecchia e malandata liretta una banda di oscillazione più ampia di quella delle altre monete in circolazione nella Comunità economica europea, non escludendo eventuali svalutazioni concordabili. Paventando una virata deflattiva e un’assai poco comprensibile contrazione dell’export, Berlinguer temette che l’inserimento dell’Italia nel cosiddetto serpentone monetario si sarebbe ripercosso sull’occupazione e sul potere di acquisto dei salari, senza tener conto del fatto che un regime di cambi semifissi come quello previsto avrebbe, invece, incoraggiato nuovi investimenti finanziari proprio nelle nazioni caratterizzate dalla circolazione di monete deboli.

Craxi aveva perfettamente compreso come Berlinguer fosse una persona umanamente eccezionale il quale, tuttavia, stava teorizzando una sorta di comunismo democratico, che in termini di scienza della politica rappresentava una contraddizione stridente, un nodo impossibile da sciogliere. Il comunismo o è rivoluzionario, oppure non è: “O ideologia borghese, o ideologia di classe: in mezzo non c’è niente”, aveva scritto Lenin già nel 1919.

Inoltre, eminenti studiosi come Norberto Bobbio stavano rilevando come il Pci, ormai, stesse svolgendo le funzioni di un vero e proprio Partito socialista: un socialismo massimalista, ma pur sempre socialista. Era dunque giunto il momento di affermare, inequivocabilmente, che i socialisti avevano ragione sin dai tempi della rivolta ungherese repressa dai carri armati sovietici nel 1956. I comunisti italiani, pur avendo indubbiamente dimostrato, soprattutto durante la psicodrammatica vicenda Moro, di aver pienamente accettato i metodi e le procedure della democrazia parlamentare, ora dovevano definitivamente abbandonare Karl Marx e guadagnare, a tutti gli effetti, la sponda del socialismo democratico.

La guerra tra i due Partiti cugini esplose immediata e clamorosa, lasciando la Democrazia cristiana incredibilmente indisturbata al governo del Paese, nonostante, da un punto di vista numerico, sin dalle elezioni politiche del 1968, se sommati assieme, i due tronconi storici della sinistra italiana superassero più che sensibilmente il bagaglio di voti complessivi dello scudo crociato.

Il travaglio comunista fu lento e doloroso, pieno di rancori e sogni infranti. Dopo le elezioni politiche del 1983, Craxi iniziò a presiedere, in alleanza con la Dc, uno dei governi più lunghi e attivi della Storia della Repubblica italiana, inaugurando nuovi rapporti tra mondo del lavoro e associazioni di categoria (ecco come nacque la cosiddetta concertazione, ndr). E l’anno dopo, attraverso un decreto legge, il leader del Psi decise di tagliare tre punti di contingenza della cosiddetta indennità integrativa speciale – la scala mobile, per intenderci – la quale era stata unificata, nel 1975, a un punto talmente elevato da generare un tasso d’inflazione a due cifre (nel 1982 venne raggiunto un dato inflazionistico pari al 21,8%). Si trattò di un atto di coraggio politico incredibile: il governo che decretava in materia di contratti! La frazione comunista della Cgil, inferocita, decise di raccogliere le firme al fine di abolire, tramite referendum, quella norma, la quale avrebbe potuto causare, a parere del sindacato comunista, una crisi deflattiva che sarebbe ricaduta sui ceti più deboli.

Per farla breve, secondo i comunisti la misura era ormai colma. Perciò fu stabilito che il referendum sull’abolizione della scala mobile si sarebbe dovuto tenere l’anno successivo alle elezioni europee del 1984, ma proprio durante quella campagna elettorale, Berlinguer venne improvvisamente a mancare. La scomparsa del leader sassarese portò nelle strade di Roma due milioni di persone. E il Pci, per la prima e unica volta nella sua storia, superò, nel conteggio finale dei risultati per il rinnovo del parlamento europeo, la Democrazia cristiana (33,3% contro il 33% dello scudocrociato, ndr).

Tuttavia, il referendum sulla scala mobile, tenutosi l’anno dopo, venne perduto: si trattò di una sconfitta rovinosa per il Pci, il quale all’improvviso si ritrovava a dover gestire una difficilissima fase post Berlinguer, in un contesto di gravissima crisi di leadership. Si era ormai definitivamente schiusa l’era di Bettino Craxi, il quale aveva intuito che, considerando le modalità cicliche della congiuntura economica internazionale, ogni possibile ricaduta monetaria discendente dall’abolizione della scala mobile avrebbe avuto effetti molto diluiti nel tempo, peraltro ammortizzati da un forte calo dell’inflazione e dall’improvviso irrobustimento del potere di acquisto interno della lira.

La partita, per il Pci, era clamorosamente perduta. Cominciarono così i bellissimi anni ’80: un decennio felice e produttivo, in cui il Made in Italy divenne di moda “non solo per la moda”, come ebbe a dire lo stesso Bettino Craxi. I comunisti erano totalmente in balìa della situazione, a mezza strada tra il disorientamento e una snobistica autosegregazione all’opposizione. In una chiave eminentemente dottrinaria, la lucidità politica di Craxi era assolutamente intellegibile: Marx era un economista classico, alla Ricardo. E come Ricardo aveva teorizzato una caduta tendenziale del saggio di profitto capitalistico che discendeva, quasi direttamente, dalla teoria ricardiana dei “rendimenti decrescenti”.

In punta di dottrina, infatti, la fotografia del sistema capitalistico delineata dal filosofo di Treviri ne ‘Il Capitale’ era perfetta. Ma la ricetta proposta era troppo pessimista, poiché nulla ha mai impedito periodici riassestamenti congiunturali del sistema produttivo preso nel suo complesso. Si trattava, in buona sostanza, del concetto “dell’andamento ciclico dell’economia”, che dopo Marx era stato teorizzato da Sraffa e da Keynes: non c’era alcun bisogno di erigere un pachidermico capitalismo di Stato, al fine di assicurare una miglior distribuzione delle ricchezze tra le classi sociali. Bastava – e basta – una periodica correzione, in termini di politica economica, dei meccanismi di redistribuzione dei redditi e dei salari sul mercato del lavoro. Il marxismo, in sostanza, si era rivelata una teoria sociologicamente ingegnosa, ma scientificamente sbagliata. E non si poteva nemmeno considerarla una filosofia, poiché crollando ogni presupposto scientifico, la sua dottrina di fondo decadeva a mero sentimentalismo proletario.

Bettino Craxi si ritrovò di fronte all’improvvisa agonia della speranza che aveva mosso milioni di uomini e donne in tutto il mondo: quella dell’avvento del “Paradiso sulla Terra”. L’equivoco, la non comprensione, il fideismo atipico di una sorta di misticismo ateo, alimentato da decenni di nicodemismi strumentali e di doppie verità, si scaraventarono contro di lui. Il craxismo iniziò a essere esaminato come un fattore degenerativo della politica italiana: una sorta di decisionismo di potere per mere finalità di potere. Ma quella mutazione genetica di cui i socialisti erano stati accusati proprio da Berlinguer fu solamente il definitivo strappo dell’autonomista Craxi (autonomista rispetto all’abbraccio con il Grande Fratello comunista) dalla tradizione più utopica della sinistra italiana.

 

 

(8 marzo 2024)

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