di Claudio Desirò
Che nel nostro Paese vi sia un problema con il mondo dell’informazione è notizia nota da tempo: che si parli di televisione, tra telegiornali e talk show di pseudo approfondimento, o che si tratti di giornali, cartacei o peggio online, i temi vengono trattati inseguendo costantemente lo spettatore in più e la visualizzazione aggiuntiva, anche attraverso i titoli da clickbait, in una costante rincorsa alla visibilità, che trasforma qualsiasi tema in uno spettacolo diffuso ad uso e consumo delle folle.
Un circo mediatico disposto a sacrificare qualsiasi notizia pur di soddisfare la pruriginosa curiosità del proprio pubblico.
Ed è così, ad esempio, che il 7 ottobre scorso quasi tutti i corrispondenti impegnati da un anno e mezzo sul fronte di guerra tra Russia ed Ucraina si sono trasferiti nel giro di qualche ora in Medioriente, divenuto nuovo fronte di guerra e fonte di informazioni calde da diffondere in modo capillare.
Una guerra, nel cuore dell’Europa, che stante le scarse e saltuarie notizie che vengono riportate, sembra quasi finita, nonostante sia ancora drammaticamente in corso, sebbene sacrificata in nome dello show dal mondo dei media.
Uno show che tristemente non poteva non scatenarsi anche attorno al racconto della scomparsa e dell’omicidio di Giulia Cecchettin, tema che solletica ancora di più di una guerra o dei suoi crimini la morbosa curiosità di un pubblico ormai avvezzo ai dettagli anche più insignificanti se diffusi col giusto appeal. Un triste spettacolo informativo che ha raggiunto uno dei suoi apici con la decisione istituzionale, quindi ancora più ingiustificabile, di procedere al rimpatrio dell’assassino in modo scenografico: non era evidentemente sufficiente un volo di linea con due agenti di scorta e non poteva nemmeno bastare un furgone delle forze dell’ordine per riportare in poche ore Turetta dalla Germania in Veneto. Per spettacolarizzare il tutto, invece, si è scelto, in nome dell’audience, di utilizzare un Falcon dell’Aeronautica Militare ed una lunga scorta di automezzi dall’aeroporto fino al carcere. Come se invece che di un assassino si fosse trattato di un pericoloso terrorista o latitante, si è deciso di spettacolarizzarne l’arresto per renderlo una vittoria visibile e tangibile dello Stato nei confronti della criminalità. Una vittoria da mostrare al mondo come in un film, nonostante si trattasse di un omicida su basi passionali, quindi ben poco pericoloso dal punto di vista sociale per la collettività e nemmeno dotato di un’organizzazione di supporto in grado di organizzarne la fuga in caso di trasporto dal minore impatto mediatico.
Una spettacolarizzazione di un caso di violenza inaudita che ci ha portato in questi giorni a sapere tutto o quasi su ogni minuto di vita carceraria dell’assassino, delle sue richieste di libri, dei suoi pianti, fino alle pause tra una parola e l’altra durante l’interrogatorio di garanzia.
In un circolo vizioso di diffusione di notizie decisamente secondarie rispetto alla vicenda, con il funerale della povera Giulia ancora da celebrare, è stata analizzata e sviscerata in ogni suo aspetto la vita della vittima, il suo rapporto conflittuale con l’aguzzino, le chat e le sue confidenze con amiche e familiari circa i dubbi e le paure derivanti dalla rottura della loro relazione.
Inviati che soggiornano costantemente di fronte l’ingresso del carcere di Verona come se da un momento all’altro dovesse avvenire qualcosa, trasmissioni di approfondimento che analizzano la psicologia di assassino e vittima, dichiarazioni di personaggi più o meno coinvolti alla ricerca del proprio quarto d’ora di notorietà, il tutto calpestando il dolore e la sensibilità delle persone realmente coinvolte, a partire dal corpo ancora caldo della povera Giulia.
Un circo mediatico che passa sopra qualsiasi sentimento per solleticare la morbosa curiosità del pubblico a conoscere gli aspetti più intimi ed il dolore più profondo di chi viene coinvolto, con o senza colpe, negli episodi di cronaca quotidiana. Persone che diventano personaggi di una narrazione pruriginosa dei quali si diffondono i particolari più intimi.
Fino al prossimo caso, fino a quando il carrozzone del giornalismo si trasferirà in un’altra città, davanti ad un altro tribunale, attendendo non si sa bene cosa, davanti l’ingresso di un altro carcere.
In nome dell’audience, non certo dell’informazione.
(1 dicembre 2023)
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