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Dal ratto delle sabine ai femminicidi di oggi, il passo è breve

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di Marco Biondi

Fortunatamente ho una buona memoria e nonostante gli anni continuino inesorabili a passare (se non lo facessero sarebbe peggio) a volte mi tornano alla mente episodi di tanto tano tempo fa.

La prima volta che sentii parlare del “ratto delle sabine”, credo fosse quando ero un piccolo “alunno delle elementari”. Il ricordo che mi rimane è che dopo la fondazione di Roma, sembra che le donne scarseggiassero, e così Romolo organizzò uno spettacolo attirando un folto gruppo di donne Sabine, territorio non lontano da Roma, e le fece rapire per destinarle alla riproduzione in favore del futuro popolo della nuova città di Roma. Fu stupro di gruppo? Chi può dirlo, ma di certo i romani di allora non guardarono troppo per il sottile. Serviva riprodursi e trovarono il modo di farlo.

Quello che oggi mi fa inorridire è che, quello che si studiò sui libri di scuola negli anni sessanta, fu un racconto a metà tra una conquista sagace del fondatore di Roma, e un fatto di cronaca, quasi “divertente”. Ignoro, forse per fortuna, come si rappresenti oggi questo fatto “storico”.

Perché, con tutte le cose che potrei ricordare, oggi mi viene in mente questa cosa? Perché è inesorabilmente una cruda realtà che l’uomo, inteso come maschio, abbia sempre considerato la donna, quale strumento in suo possesso per divertirsi e riprodursi. Sempre negli anni della mia infanzia, esisteva nel nostro codice penale una legge che riguardava il delitto d’onore, per non parlare del riconoscimento del “diritto” dell’uomo ad uccidere la propria moglie o fidanzata, se sorpresa a tradirlo. Non proprio depenalizzato, ma quasi. In quel caso la soluzione si chiamava “matrimonio riparatore”. Una scelta praticamente obbligata. Per la donna, chiaro. Nella sostanza, passati quei 2700 anni dal ratto delle sabine, il “diritto” dell’uomo sulla donna continuava ad essere addirittura ratificato tra le leggi del nostro Paese. Voglio, al momento, ignorare quante leggi simili, o comunque derivanti dalla stessa ispirazione, esistono tuttora nei vari Paesi del mondo.

Se solo prendiamo in considerazione i codici di certi islamici c’è da inorridire.

Detto quanto sopra, vorrei che ci fermassimo per un attimo a valutare se e come la considerazione dei diritti di uomini e donne sia cambiata dai tempi della mia infanzia.

I femminicidi ai quali assistiamo attoniti quasi giornalmente ci raccontano che il cammino sia quasi ancora da intraprendere. Le leggi oggi non autorizzano, e meno male, alcun atto di violenza nei confronti di chicchessia e allora purtroppo parecchi uomini si sentono in diritto di disporre della vita delle “loro” donne  fino a sopprimerle, che sia in maniera premeditata o in preda a impulsi incontrollati, poco importa.

E l’irrefrenabile violenza sessuale, di gruppo o singola, non fa eccezione all’idea del brutale “possesso” del corpo femminile. Parte dallo stesso principio secondo il quale la volontà della persona che si desidera possedere alla fine non conta. Anzi, magari se si oppone è pure più eccitante. Ma perché il processo di civiltà che avrebbe dovuto portarci fuori da questi insopportabili comportamenti non si è ancora completato e molte persone sono rimaste ai tempi degli antichi romani? Il primo pensiero non può non andare alla scuola. Stiamo ancora parlando del ratto delle sabine come di un folcloristico stratagemma per popolare la città di Roma nei primi tempi dalla sua fondazione?

E poi perché non si è ancora re-introdotto seriamente l’insegnamento dell’educazione civica? Era una materia fondamentale per far capire ai giovani ragazzi i principi sui quali si ispira la nostra Costituzione, a quali sono i doveri e i diritti, a quali fondamenti della convivenza civile ci si deve ispirare in ogni comportamento della nostra vita.

E poi le famiglie. Se all’interno delle famiglie ancora trovano spazio atti di violenza e sopraffazione dell’uomo nei confronti della donna, come pensiamo che possano crescere con sani principi i figli che assistono a tali scene? Se alla base manca la cultura del rispetto, le nuove generazioni come fanno a farlo diventare un principio di vita se né a scuola, né in famiglia arriva il giusto insegnamento? Cosa potrebbero fare quindi la società e la politica – insieme – perché si inizi veramente e convintamente un percorso di civilizzazione dell’intera popolazione, e soprattutto delle nuove generazioni? Se un giudice, ancora oggi, può assolvere un gruppo di ragazzi perché non si è riuscito a documentare che il rapporto sessuale avuto in tanti contro una non fu consensuale, forse manca qualcosa anche a livello giurisprudenziale. Un no è sempre un no, ma anche l’incapacità di dirlo, quel no, deve essere considerata alla stessa stregua. Allora facciamo passare il principio che non si deve cercare il no, ma si deve provare il si. La donna può essere consenziente, ma solo se sobria e in possesso di tutte le proprie facoltà mentali. Altrimenti equivale a un no. Ed è stupro.

Fermo restando che è ridicolo sentir parlare di castrazione chimica, il problema è nella testa, nel pensiero nella cultura, non negli organi di riproduzione. Anche la politica, così carente e poco illuminata, per essere benevoli, ha quindi le sue responsabilità.

Io quindi proporrei la modifica della giurisprudenza per cui senza un sì esplicito e consapevole, si può parlare di stupro, e inizierei a parlarne a scuola. Perché qualsiasi atto di sopraffazione, maschile o femminile, singolo o di gruppo, va combattuto.

E se poi riuscissimo ad avere più donne giudici, magari riusciremmo a evitare quelle interpretazioni fantasiose di alcuni giudici maschi che spesso diventano il secondo atto dello stupro. Perché lo stupro è vigliacco e odioso, ma lasciarlo impunito, dopo tutte le fatiche fisiche e morali che servono per denunciarlo, è civilmente e moralmente intollerabile.

 

 

(29 agosto 2023)

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