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La ragionevolezza tra accoglienza del rifugiato e ricerca di un’anima europea

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di Vanni Sgaravatti

Ragionevole non è razionale, secondo Kant nel suo “Per la pace perpetua”. Il primo termine comprende le ragioni morali, mentre il secondo è improntato alla logica della convenienza.

Una parte di progressisti, spesso gli stessi che invocano la pace in Ucraina a tutti i costi, considerano le barriere poste all’accoglienza degli immigrati come il risultato di decisioni e tendenze più che accettabili, giustificabili dalla constatazione che non siamo un mondo ideale e che la realtà ci obbliga a non potere fare a meno di porle, queste barriere.

In altre occasioni, però, gli stessi concordano verso la forte critica sul carattere mercificante del sistema in cui si vive. E non vuol dire solo che concordano sul fatto che si vive in un sistema dove si consuma e si compra molto, ma che i criteri fondamentali di scelta che condizionano la nostra vita sono quelli afferenti alla convenienza ed efficienza. Ma quando si tratta dell’accoglienza del rifugiato allora si torna ad essere non ragionevoli (secondo il modo Kantiano di intendere la ragionevolezza), ma razionali, cioè si decide sul costo che dovremmo sopportare per essere accoglienti.

Le persone che, invece, si ispirano e si identificano nel pensiero di destra non parlano di convenienza, se non per convincere quella parte di persone proto-progressiste ad accettare muri e limiti. Parlano di frontiere dello stato sovrano da difendere anche dagli immigrati, come un valore in sé. È il cosiddetto “prima gli italiani” o “american first”. In questa strana alleanza i conservatori sono orientati dai valori, mentre i primi, i progressisti dalla convenienza. Personalmente non saprei cosa scegliere tra le due posizioni. O meglio non mi sento rappresentato da entrambe le posizioni. Il valore rappresentato dallo slogan: ”italian first” significa che il comportamento ispirato al rispetto della dignità e della libertà dell’altro è a geometria variabile, dipende dalla grado di appartenenza alla propria tribù, dallo stato sovrano alla propria razza.

Molti di destra, di ispirazione conservatrice, non la dicono in questo modo e non tanto per ipocrisia, ma per mancanza di consapevolezza di come di fatto si declina quel loro “italian first”. Se sono messi di fronte alla conseguenza logica di questo slogan, si rifugiano nelle modalità di ragionamento del gruppo dei progressisti razionali, quelli della non convenienza. Qualcuno potrebbe obiettare che più di “non convenienza”, si parla di impossibilità. Ma non mi sembra però che chi lo sostiene è contemporaneamente così dispiaciuto di non poter perseguire un valore morale universale e condiviso, facendo di tutto per applicarlo, ove possibile. Forse, personalmente, potrei riconoscermi nello slogan “Europa first”, se a questa Europa si desse un confine riconoscibile non tanto geografico o politico amministrativo, ma anche determinato da alcuni valori fondanti della comunità europea. Europa, infatti, trae origine dal greco e significa ampia visione e mal si adatta alla politica dei muri e delle barriere.

Gli europei sono abituati a chiedersi cosa significa essere tedesco, italiano, francese, molto più di un asiatico. Lo stesso filosofo Adorno non si sottrae a questa esigenza e definisce tedesco significa “essere in transito verso l’umano”.

Ma essere europeo è un concetto astratto come lo è quello della globalizzazione e in quanto tale, tende a piallare le differenze, inducendo, per contrapposizione, un’esigenza a ritrovare un’identità, fino alla forma estrema dell’azione terroristica per riuscirci o meglio sognare di riuscirci (come dice il filosofo coreano tedesco Byung-Chul Han).

Per trovare l’essenza dell’essenza dell’essere europeo, introdurre un sentimento europeo più profondo, assicurando una sentita partecipazione del popolo alla dimensione politica europea, non si dovrebbe cercarla in prassi governative ed in leggi europee più convenienti per i cittadini delle diverse comunità europee.

Questo è un criterio razionale giusto, ma pensare di trovare tra le pieghe della buona amministrazione europea l’anima sulla base della quale la governance dell’Europa troverebbe maggiore consenso è una fatica di Sisifo. Le inevitabili delusioni di decisioni politiche che accontentano il cittadino europeo medio – profilo teorico per definizione – ma non possono accontentare nessun cittadino europeo in carne ed ossa producono un’accelerazione esponenziale dell’allontanamento della politica che già, al livello locale o nazionale è molto distante dal cittadino. Questa considerazione è ormai un refrain dato per scontato. Quello che non lo è, perché non è condiviso da tutti è la considerazione che la responsabilità di questa distanza è di tutti noi e della nostra cultura.

Da tutti, infatti, ormai la politica, locale, nazionale o europea che sia, viene vissuta come la ricerca di un consenso basato sul soddisfacimento dei bisogni degli elettori, come vivessimo in un enorme suk o supermercato in cui si scambiano poteri in cambio di immaginarie promesse di “balocchi” da distribuire o bisogni da soddisfare. E questo incrocio vizioso tra caratteristiche mercantili della politica nazionale e della politica europea contribuisce a peggiorare ulteriormente il vissuto della distanza dai sentimenti delle persone, nel momento in cui la perdita dell’anima della politica locale o nazionale tenta di ritrovare una propria verginità scaricando su quella europea la matrice originaria di tutte le politiche senza anima.

Ritornando quindi al discorso sui principi come bussola da sostituire alla logica della convenienza, occorrerebbe colorare la politica di umanità, etica e di desiderio vitale e non solo ritrovarli, quei principi e valori che uniscono l’Europa, tornando a considerare alcuni di questi come elementi senza i quali la vita non è degna di essere vissuta. Come è possibile farlo in un sistema che tende a fare del calcolo e della convenienza economica il metro di ogni cosa?

Proporre principi e valori inalienabili e non barattabili come bussola di un programma operativo appare utopistico, e, in passato, quando non lo è stato ha trasformato l’Europa in un inferno di ferro, fuoco e di lager. Ma trovo, però, amaro e triste e persino, per me, sorprendente, riscontrare che di fronte alla disperata e talvolta mortale lotta per la libertà di molti europei ucraini, molti italiani si impegnino a trovare le ragioni di convenienza personale che animano ogni soggetto, individuale o sociale, coinvolto nel conflitto.

E non è difficile trovarli gli interessi, anche quelli meno nobili: qualsiasi tragedia si porta dietro ed esalta tutte le varietà dei sentimenti e dei comportamenti umani, dall’amore, all’indifferenza, all’odio, alla sopraffazione, allo sfruttamento dell’altro.

Ma, perché allora non scegliere di proiettare tra le proprie narrazioni autoprodotte, esempi (e ce ne saranno pure in quel conflitto), di persone che vanno al di là della convenienza, al punto da mettere in gioco per sé stessi e per gli altri tutto quello che hanno, persino la loro stessa vita?

Non sto parlando di utilizzare questi esempi per una propaganda di retorica epica, sto parlano di riflessioni personali, espresse anche in silenzio, oppure attraverso l’ascolto, ma almeno senza impegnarsi nel cercare di convincere l’altro e, soprattutto, sé stesso, che non vale la pena di rischiare. Mai.

 

 

 

(9 febbraio 2023)

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