di Lorenza Morello
L’idea alla base dell’autonomia differenziata è che le Regioni a statuto ordinario possono chiedere di avere competenza esclusiva su alcune materie. Tra queste: l’istruzione, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali, il commercio con l’estero, la gestione di porti e aeroporti, le reti di trasporti. In passato, ci avevano provato già Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna attraverso singoli accordi con il Governo. Ma l’approvazione di una legge sull’autonomia differenziata, nelle intenzioni dei promotori, serve a semplificare e uniformare i passaggi per tutte le Regioni.
Senza costare un euro, questa riforma dovrebbe garantire una maggior responsabilizzazione della spesa pubblica, maggior efficienza e quindi servizi di maggior qualità offerti ai cittadini. Dimenticando che l’istituzione delle regioni è stata, storicamente, una delle cause che ha fatto esplodere il debito pubblico e ha complicato non poco l’assetto normativo e istituzionale del Paese (basti pensare che i conflitti tra Stato e regioni sono il tema principale delle cause che finiscono davanti alla Corte costituzionale). Chi si oppone, e in particolare le forze della sinistra, che hanno già annunciato mobilitazioni, sostiene invece che l’effetto principale di questa riforma sarebbe quello di spaccare il Paese. Il presupposto, implicito, sembra essere che i governatori del Sud sono incapaci di gestire il potere in modo efficiente e di fornire servizi utili ai loro cittadini, quindi, per loro l’attribuzione di maggiori poteri si tradurrebbe in maggiori sprechi e maggior clientelismo. Quindi, il Nord, con l’autonomia, dovrebbe diventare più virtuoso, mentre il Sud potrebbe solo sprofondare? Il paradosso è che l’autonomia differenziata costituisce semplicemente l’attuazione della riforma del titolo quinto della costituzione, votata proprio dalla sinistra nel 2001.
Se poi si pensa che da decenni ormai si invoca una decisa semplificazione degli assetti istituzionali e ora si vorrebbero declinare a livello regionale materie come le politiche attive del lavoro, l’istruzione, il governo del territorio, la salvaguardia dell’ambiente, i beni culturali e così via. E poi, in un momento storico nel quale emergenze globali come la crisi dei subprime, il coronavirus, la guerra in Ucraina, il caro energia dimostrano che anche il livello nazionale non è sufficiente per intervenire in modo efficace, ma è necessario un approccio coordinato almeno a livello europeo, si vorrebbero riportare materie così importanti a una competenza di livello più frazionata, con la conseguente moltiplicazione di interessi e veti contrapposti? Sarebbe un ottima cosa a livello teorico ma ahinoi calata nella realtà sembra fuori da ogni logica.
La cosa più probabile è che anche stavolta la riforma resti lettera morta. Il presupposto per l’attuazione dell’autonomia differenziata è infatti la previa attuazione dei Lep (livelli essenziali delle prestazioni), che tutte le regioni dovranno garantire ai cittadini. Un’impresa decisamente fuori della portata dei nostri politici, anche perché questo livello minimo deve essere fatto senza che lo Stato debba versare un euro, oppure, se ci dovessero essere dei costi da sostenere, bisognerebbe indicare dove andare a prendere i soldi, cioè quali nuove tasse o quali tagli alla spesa. È chiaro, infatti che nel definire i livelli minimi delle prestazioni che devono essere garantiti, le regioni e i politici del Sud (ma anche molti del Nord) spingeranno per fissare standard almeno svizzeri (perché accontentarsi di meno?), e questo sarà sufficiente per bloccare tutto il processo.
Il ddl Calderoli prevede che l’intesa raggiunta tra Stato e Regione avrà una durata di dieci anni. Se, trascorso questo periodo, né l’autorità nazionale né quella locale avranno espresso una volontà diversa, l’accordo si intende rinnovato per altri dieci anni. L’intesa può ovviamente anche essere modificata, su richiesta dello Stato o della Regione interessata.
Chi scrive teme che tutto il gran parlare fatto in questi giorni si ridurrà a poco più del tentativo politico di galvanizzare gli elettori leghisti che, tra poco, saranno chiamati alle urne per eleggere il governatore della Lombardia. Improbabile che possa davvero arrivare a conclusione un processo così complesso.
(7 febbraio 2023)
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