di Vanni Sgaravatti
È un’illusione pensare che i taxisti che protestano a Roma non abbiano delle buone ragioni per protestare. Così come è un’illusione pensare che i no tav abbiano tutti i torti. O che li abbiano i pro-tav. Sarebbe comodo pensare che non esistano dolorose contraddizioni e che le scelte possano essere fatte in presenza di situazioni dove il bianco sta tutto da una parte e forse, persino che si possa fare un calcolo aritmetico, condiviso, sul numero di vantaggi e di svantaggi di una scelta.
Più si allarga l’ambito di pertinenza delle decisioni politiche, dal locale, al nazionale, al planetario, più il bene collettivo, quando è populismo o è una media statistica delle esigenze che non accontenta nessuno o massimizza il bene di un target omogeneo di propri elettori, alienando però le simpatie degli esclusi. Quando è democrazia rappresentativa, invece, non può essere altro rispetto a quello che i rappresentanti pensano sia il bene del paese, immaginario e immaginato (al netto degli interessi personali). Quando è oligarchia o capitalismo di stato, la questione non si pone neppure.
La democrazia tenta, con manipolazioni comunicative di varia natura, di cercare le compatibilità a tutti i costi, di nascondere che ogni scelta ha un costo, per qualcuno più di un altro. Ma è solo un rimandare, se non si trovano valori simbolici unificanti per cui il proprio benessere può essere sacrificato.
Quando sento tante persone che, dopo la pandemia vogliono “tornare come prima”, quando sento tante persone che, in occasione della guerra, o si concentrano sul caro bollette oppure si rifugiano nel: “Non mi riguarda, privilegio la conquistata della pace e – direi io – amata comfort zone”, non sono solo impressionato, amareggiato per la questione in sé. Anche io, del resto, apprezzo la mia comfort zone. Ma mi rendo conto che forse Putin ha momentaneamente vinto, quando, sostiene, con i fatti ancor più che con le parole, che la narrazione motivatrice e giustificatrice deve essere una sola, quella dello Stato e della dinastia al comando. Perché non si capisce come tante narrazioni divergenti possono avere un punto comune di caduta.
Più il degrado sociale, ambientale, economico si fa forte tra guerre, epidemie, siccità e carestia più le mediazioni spontanee e indolori tra diversi interessi diventano impossibili.
Il degrado sociale spinge anche ad un degrado di valori che investe tutti, rappresentanti politici compresi, che perdono quella spinta ideale di partenza (al netto di quelli che non l’hanno mai avuta), che sono immersi in mediazioni senza fine e tendono a rifugiarsi nel proprio gruppo di riferimento che talvolta non è tanto quello della parte politica a cui si appartiene, ma alla corporazione dei politici.
Hanno, del resto, la possibilità di sconfinate praterie di giustificazioni morali: la società senza valori, i cittadini, loro rappresentati, che pensano ai propri interessi. E a proposito delle giustificazioni morali, cito, ancora una volta Bandura e il suo corposo libro in materia: solo gli psicopatici o Joker in Batman non hanno una giustificazione morale per le loro azioni. Hitler ce l’aveva e l’aveva scritta, Stalin e Pol Pot pure, tutti noi nel perseguire il proprio interesse ne troviamo una (ad esempio: ad ognuno il suo, non esiste la società, ma gli individui, di tatcheriana memoria). Ed è costruita a posteriori, ma serve a proseguire in una direzione che si pretende sia quella giusta, ancor più che a ripulire la propria immagine. E tutto questo viene condito da un’accelerazione tecnologica nelle modalità comunicative e relazionali, che influisce sulla nostra identità, quando la costruiamo attraverso la visibilità di una performance, di un momento di visibilità pubblica o in momenti di promozione dell’immagine di noi stessi che vogliamo gli altri abbiano di noi e ci rimandino, per rassicurarci. E che ci lascia nel tentativo di assomigliare sempre più all’avatar che ci siamo creati. Condito, appunto, dalle giustificazioni morali necessarie a sostenerne i comportamenti.
Lo ammetto, ho messo assieme tutti gli aspetti negativi del vivere contemporaneo che mi vengono in mente. Ma se non si vede il problema che sottende a tutti questi, non si può neppure sapere in che direzione si possa andare.
Indipendentemente dal successo della soluzione che individueremmo nel comprendere il problema di fondo, questa ci darebbe la sensazione di vedere quale strada giusta si dovrebbe imboccare, per quanto non facilmente percorribile.
In questo senso, avevo cominciato a leggere il libro di Rampini sul suicidio dell’occidente nel non difendere i propri valori con interesse. Speravo mi desse altri spunti, tra i tanti, per uscire dal complesso di colpa di noi colonialisti, per individuare un’autentica visione non di tipo “difensivo”. Ma poi comincia a parlare dell’immigrazione e parla, tra i motivi che inducono i progressisti americani all’apertura, del complesso di colpa e del bisogno di espiazione. E lo generalizza agli occidentali. E allora non mi riconosco più tanto. Si dovrebbe essere “aperti”, perché “egoisticamente” lo vogliamo noi, perché l’apertura può salvare il pianeta e renderlo vivibile per noi, perché fa parte della visione, senza averne dei vantaggi immediati, perché è la nostra identità distintiva, il nostro brand. Non certo per espiare delle colpe. E mi ritorna ancora in mente la tanto citata battuta di Suor Maria Teresa di Calcutta al ricco imprenditore che le diceva: “Non farei quello che fa lei per tutto l’oro del mondo”. E lei: “Neppure io”.
E ritorniamo alla questione della visione e dei sentimenti vitali che l’accompagnano, quando la visione non è condivisa e i sentimenti latitano.
Si faceva una battuta tempo fa, all’inizio della guerra: Putin ci ha salvato dal Covid. In che senso? Ovviamente ha spostato la nostra percezione da un’altra parte.
Ma per come vedevo le cose, da un particolare punto di vista, non aveva spostato nulla, rispetto al nocciolo della questione. Sia la pandemia che la guerra di Putin, ci pongono di fronte al solito dilemma: ma noi a cosa crediamo per cui valga la pena di sacrificare qualcosa a cui teniamo davvero? Non mi interessava sondare sul tasso del nazionalismo degli ucraini, se questo odorava più di destra o di sinistra. Non mi importava di capire se Zelensky fosse quello che era o recitava un personaggio. Ognuno si ritrova anche senza saperlo a recitare un ruolo e lo recita come meglio crede. Queste sono tutte questioni che permettono a noi stessi di distrarci dalla quella vera: noi a che cosa crediamo, chi siamo, chi vogliamo essere, quale personaggio vogliamo recitare: Zelenski o lo spettatore sul divano di casa, in attesa che il cielo ci cada sulla testa?
(6 luglio 2022)
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