di Vittorio Lussana
A prescindere dalla correttezza personale di Giuseppe Conte, che riteniamo poco discutibile, veniamo a precisare che il recente tweet dell’ex ministro per lo Sviluppo economico, Carlo Calenda – che nei giorni scorsi ci ha fatto letteralmente sbellicare tutti quanti dalle risate e di cui prego la regia di riprodurre qui di seguito – risulta politicamente fondato.
Quindi Conte, nell’ordine: 1) si comportava da colonia degli USA; 2) firmava, unico paese Occidentale, la via della seta cinese; 3) faceva venire in Italia militari russi a spese nostre; 4) sosteneva i gilet gialli 5) faceva occhiolino a Maduro. Ndo cojo cojo. Diciamo.
— Carlo Calenda (@CarloCalenda) April 19, 2022
In sostanza, quando l’attuale leader del Movimento 5 stelle ha ricoperto la carica di capo del Governo, ha finito col dar retta un po’ a tutti, mostrando il vero problema della forza politica che lo ha espresso, per ben due volte, alla guida dell’esecutivo: la mancanza d’identità politica. E’ senz’altro vero, infatti, che il qualunquismo incroci pienamente i gusti del popolo italiano: una realtà subculturale che li conduce, più o meno, a preferire Albano e Romina Power rispetto ai Pink Floyd. Gli italiani son fatti così e dovremmo saperlo da tempo: si tratta di una loro strana “media ponderata nazionalpopolare”, avrebbe precisato Antonio Gramsci. Ma a prescindere da ciò, veniamo anche a ricordare al M5S, così come alle altre formazioni populiste o di massa che dir si voglia, che una forza politica qualsiasi non possa unicamente preoccuparsi di raccogliere consensi. Essa deve altresì produrre anche uno sforzo programmatico e far comprendere agli italiani cosa vuol fare.
Provenire da una tradizione culturale ben precisa non significa aderire a uno schematismo ideologico, bensì possedere un’idea, una visione articolata e complessa, di come debba essere strutturata una società. Si tratta di modelli e categorie culturali di riferimento che prevedono rielaborazioni e modernizzazioni, non di dogmi immodificabili o immobilisti. Validi anche per chi si dichiara “conservatore”. Le categorie culturali hanno una loro funzione e non sono affatto strumenti a cui si dovrebbe rinunciare: chi ritiene una cosa del genere è solamente un qualunquista. Tuttavia, esse non sono affatto delle direttive immodificabili o non rivedibili. E in ogni caso, mantenere alcune categorie di riferimento non obbliga a rispondere a una dottrina o a una filosofia canonicamente intesa.
Risulta pur vero, che si tratta di confusioni tutto sommato perdonabili, per una forza politica che si è presentata di recente sul palcoscenico della vita pubblica italiana. E tuttavia, non sono neanche critiche di scarsa importanza, come l’attuale capo politico del M5S vorrebbe darci ad intendere. Esiste, inoltre, una scusante gigantesca: la cultura generalista diffusasi negli ultimi 30 anni in Italia. Un approccio alle questioni e ai problemi che tende a generare una mescolanza informe di contenuti, all’interno di una forma più o meno accettabile per tutti: un involucro genericamente rassicurante, per l’appunto. Un minestrone di cose, in cui si può trovare un po’ di tutto, dall’alta cultura al gossip più pruriginoso, dal diavolo all’acqua santa’ dalle fiction sulla vita dei papi alla tipa che fa la spesa sexy al supermercato, forse per riuscire a farsi rimorchiare da qualcuno sul bancone dei surgelati. Un classico emporio sovietico, insomma, dove si può trovare un po’ di tutto. Persino il maglioncino ceruleo de Il diavolo veste Prada, il film-commedia del 2006 diretto da David Frankel, che ha avuto il merito di sottolineare cosa significhi il lavoro altrui e come dovrebbe essere maggiormente rispettato. Anche quello dei dirigenti.
Tornando ai nostri inguardabili Partiti, professare un’identità o una tradizione politica ben precisa serve anche a individuare e, persino, a delimitare una formazione politica qualsiasi, fornendo a tale definizione di limite una connotazione positiva: darsi dei limiti spesso è buona cosa, anche e soprattutto nei comportamenti quotidiani. Almeno gli italiani potranno comprendere meglio chi hanno di fronte, anziché continuare a illudersi, per poi ritrovarsi delusi.
Il generalismo di massa, insomma, ha ormai gli anni contati: non si può sempre avere una risposta per tutto. E la nostra classe politica, presa nel suo complesso, deve comprendere come sia giunto il momento di una riflessione più profonda, sul Paese e sul modello di sviluppo che abbiamo sin qui seguito. Ovviamente, sconsigliamo l’approccio storicista, di destra o di sinistra che sia: anche ciò che può essere ripescato dal passato, quando non riattualizzato, rischia solamente di dimostrarsi obsoleto, sia in quanto metodo, sia come approccio ai problemi. La qual cosa non significa neanche tentarle tutte, come tende a fare il M5S e come, giustamente, ha sottolineato l’ex ministro Calenda. La riflessione va dunque contestualizzata nel presente, tenendo ovviamente conto del passato, ma anche sapendo individuare una soluzione originale per il futuro. E chi un passato non ce l’ha, come nel caso del movimento grillino, è comunque tenuto a far sapere, innanzitutto a se stesso, cosa vuol fare da grande.
In secondo luogo, noi consigliamo di non seguire gli approcci rivoluzionari, bensì di comprendere come anticipare risposte, condizionando la direzione di marcia sia del sistema-Paese, sia del modello globalista nel suo complesso. E’ da ingenui ritenere che le cose si cambino dall’alto o in forma rivoluzionaria, secondo metodologie trascendenti e, spesso, rigidamente autoritarie. E’ vero esattamente il contrario: in politica, quando si è assolutamente certi di una cosa, quasi sino al punto da metterci la classica mano sul fuoco, quella è proprio la volta in cui si va incontro al disastro. Lo si noti osservando meglio il dibattito politico in corso: ogni volta che un esponente politico si dice graniticamente sicuro di una soluzione, la realtà s’incarica di dimostrare che ha torto, materializzando esattamente l’opposto. E ciò avviene proprio perché il generalismo, ormai, è giunto al proprio capezzale e sta per lasciarci definitivamente, senza troppi rimpianti.
Le risposte maggiormente attuali da fornire ai cittadini, oggi sono di tipo diverso: riformiste e settoriali. Esse debbono, cioè, saper penetrare nei vari ambiti specifici e negli alvei più ostici delle questioni. Non si può andare avanti col “ndo cojo, cojo”, come ha scritto per l’appunto Carlo Calenda. E’ la vecchia politica del cacciavite riformista quella da preferire rispetto al martello pneumatico rivoluzionario: bisogna intervenire nei punti specifici e secondo modalità precise, quasi chirurgiche’ per riuscire a invertire quella tendenza declinante ormai presente in ogni singola questione.
Non serve cambiare totalmente la macchina dello Stato, tanto per fare un esempio: basterebbe semplicemente operare alcune riforme costituzionali di velocizzazione del sistema decisionale. Anche quello legislativo e parlamentare, che non può vedersi ridotto alla semplice funzione di ratifica dei decreti esecutivi predisposti dal Governo. Senza mettere troppa carne al fuoco, è chiaro a tutti che si debba restituire al parlamento un proprio ruolo. Ma risulta altrettanto lampante come due Camere che fanno le stesse cose rappresentino una perdita di tempo eccessiva, a cui lo Stato-Governo tende a opporre il metodo della decretazione d’urgenza.
Se si vive solamente di urgenze, non si può dedicare molto tempo alle visioni d’insieme e alle azioni riformatrici di lunga lena, come nei casi delle fonti energetiche rinnovabili o della transizione ecologica finalizzata a combattere l’inquinamento, l’effetto-serra e il conseguente cambiamento climatico. Quel che sconsigliamo, insomma, è il metodo rivoluzionario. Soprattutto, quando interpretato in chiave negazionista: negare la realtà non serve a nulla e non risolve alcun problema. Le questioni vanno affrontate e risolte, punto. Ognuno può avere in testa la propria soluzione e proporla al Paese, ma la semplice rimozione, tendente ad affidarsi unicamente all’uomo forte o al leader carismatico, è peggio che andar di notte, come si diceva una volta. Persino il conflitto in Ucraina o le difficoltà interne della Cina popolare nel gestire la pandemia da Covid 19 lo stanno dimostrando ampiamente: non è affatto vero che i modelli decisionali centralizzati funzionino meglio rispetto al nostro policentrismo decisionale. Non solo sono regimi illiberali, ma neanche funzionano, perché nulla è perfetto a questo mondo. Purtroppo, le cose stanno così. E nessuno può farci niente. Aveva ragione Gramsci, in questo genere di cose: “Un sano disordine è da preferire a un ordine malato”.
Il Movimento 5 stelle, ma anche tutte le svariate tendenze di retroguardia delle destre italiane, debbono abbandonare ogni polemica di casta, di élites o di lobbies, che sarebbero alla base di ogni inefficienza, spesso anche la più incancrenita dal tempo. Il che non significa abbandonare ogni forma di controllo verso i vari poteri dello Stato: non stiamo affatto dicendo che ogni questione, a cominciare da quella morale, debba essere cancellata con una sorta di colpo di spugna. Al contrario, uno Stato che vuol diventare più efficiente deve migliorare anche i suoi sistemi di controllo. Quel che si chiede di evitare, invece, è la divisione della società al proprio interno, perché qualsiasi sistema politico-istituzionale possiede uno Stato-Governo e uno Stato-comunità: è proprio questa la base del diritto pubblico. Si vuol tentare la strada di un maggior ricorso a strumenti di democrazia diretta, o migliorare l’aspetto partecipativo alle decisioni politiche? Benissimo: ognuno elabori le proprie proposte e presenti un programma chiaro ed esplicito agli italiani, dato che ormai siamo anche a fine legislatura.
Insomma, si faccia più politica e meno confusione, dato che proveniamo da una legislatura alquanto conflittuale, che si è vista costretta a chiamare un tecnico per riuscire ad affrontare i problemi. Non è stata una bruttissima prova, quella del Movimento 5 stelle al potere. Tuttavia, questa forza politica ha dovuto spesso appoggiarsi a questa o a quella formazione avversaria, al fine di essere aiutato a rispondere alle emergenze e ai numerosi problemi che si sono presentati, a cominciare da quello pandemico. Ciò ha un poco rispolverato la centralità del parlamento e un approccio più assembleare e rousseauiano nella discussione generale nel Paese. Ma quando si teorizza la confusione, quando si ritiene che uno valga uno o che le competenze specifiche e le specializzazioni nei singoli settori professionali non esistano, si crea solamente una mappazza grigia, che rende difficile qualsiasi giudizio sereno sull’operato di ogni qualsivoglia maggioranza politica.
(22 aprile 2022)
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