di Vittorio Lussana
Il successo di Melenchon in Francia, che ha sfiorato l’eventualità di poter sfidare il presidente uscente, Emmanuel Macron, nel ballottaggio previsto alle elezioni presidenziali attualmente in corso, sottolinea la necessità di un chiarimento culturale ben preciso relativo al disastro delle famiglie tradizionali della gauche francese. Un fallimento che non solo rischia di essere veicolo per l’affermazione delle forze reazionarie, ma che evidenzia la necessità di riformare culturalmente il nostro attuale modello educativo, al fine di renderlo meno finto, meno statico, inerme di fronte alle distinte forme di ingiustizia sociale. Nel nostro attuale modello educativo, infatti, ogni famiglia trasmette ai propri figli una certa quantità di capitale culturale. I gusti e la percezione del bello variano a seconda della classe sociale di provenienza, mostrando come i figli delle élites tendano ad accentuare la propria distinzione rispetto al sentire comune della gente.
Esistono, dunque, varie modalità in cui il capitale culturale si traduce in vantaggi educativi: coloro che provengono dalle famiglie privilegiate padroneggiano gli atteggiamenti e le conoscenze che fanno della scuola un luogo accogliente, in cui è facile avere successo. Ma la lotteria degli esami di profitto incoraggia il singolo individuo a pensare che riuscirà o fallirà unicamente in base ai propri meriti e sforzi personali, arrivando a far coincidere un orientamento progressista con una posizione privilegiata. Tuttavia, tale costruzione ideale viene assorbita e fagocitata tramite una serie di canali segreti: in pratica, un intero pezzo di società non viene più messa in grado di riprodursi, al fine di replicare se stessa e trasmettere ai propri discendenti il proprio capitale culturale. E noi crediamo che esattamente questo sia stato l’attacco più sottile delle forze reazionarie dei decenni scorsi, che ha sostanzialmente depistato lo sforzo che stavano compiendo le forze riformiste e di progresso europee.
Perché andiamo affermando ciò? Perché il mal funzionamento del nostro attuale apparato educativo, a dispetto di un’apparente libertà di accesso e del suo funzionamento formale, ha determinato una selezione basata sui criteri delle classi dominanti, trasformando il successo scolastico in un atto meramente formale, annullando la possibilità di applicazione concreta di quei princìpi e valori che compongono il capitale culturale medesimo. In sostanza, una parte della società, anche quando essa raggiunge un certo tipo di benessere o una condizione di privilegio, viene fatto in modo che tale condizione di riscatto diventi un qualcosa di caricaturale di non definitivo, destinato a trovare ulteriori forme e comportamenti di esclusione sociale.
In pratica, si fa in modo che non tutti possano arrivare a esercitare certi modelli: una parte risulta favorita dal sistema educativo e alcune famiglie possono riprodurre la propria posizione di classe in maniera legittima e apparentemente equa; un’altra parte, invece, viene fondamentalmente osteggiata, o quanto meno contenuta. E si tratta, ahinoi, di lotta di classe vera e propria: una questione che, rimanendo sul terreno sociale, rende più ostica la creazione di nuove giovani generazioni maggiormente consapevoli della necessità di una nuova fase di egemonia, civile, culturale e sociale, delle forze riformiste.
Un elemento-chiave di questa disparità di trasformazione dipende dalle posizioni economiche degli individui e rappresenta un capitale simbolico dotato di legittimità, dunque percepito come un qualcosa di reale. Ma questo capitale simbolico non è altro che un capitale economico, che tende a mantenere i consueti rapporti di potere che costituiscono la struttura reale della società. In sintesi, si resta impaludati in un conservatorismo che misura tutto con i soldi e non con le norme. E che anche nella valutazione dei meriti, privilegia la misurazione quantitativa, cioè lo stipendio che si percepisce, rispetto alla qualità professionale o culturale prodotta.
Per farla breve, non siamo tutti uguali all’interno dell’attuale modello sociale vigente. Soprattutto, di fronte alle varie fasi di crisi. Al contrario, le distinzioni sociali e di classe si fanno più aspre, poiché la natura classista della nostra società emerge con maggior chiarezza rispetto a quanto non appaia in tempi di ‘bonaccia’ o di falsa eguaglianza consumistica. E così, il dato secondo il quale una minoranza si spartisce una torta pari quasi a un terzo del reddito nazionale francese e più della metà di quello italiano, non solo conferma l’esistenza di varie caste privilegiate, ma rende più chiara la natura dello scontro politico-sociale nel quale ci siamo infilati.
E’ necessario, insomma, un nuovo modello di socialismo, che annulli le disparità sociali e sconfigga un modo selvaggio di selezione delle classi dirigenti, che considera da sempre una parte della società come un organismo estraneo o quantomeno distante da sé, immergendolo in una sorta di mare magnum. Come il deserto che circonda Las Vegas, una globalizzazione conservatrice appiattisce ogni cosa, generando confusione. E un intero pezzo di società viene utilizzato solo quando la contingenza lo richiede. Una forma di utilitarismo e di opportunismo sempre pronto a tradire i cittadini e a violare gli accordi presi, in favore di una visione statica e piramidale che non solo non dev’essere toccata, ma neanche riformata.
Questo è ciò che il presidente Macron dovrebbe comprendere intorno al nostro attuale modello di sviluppo socioeconomico occidentale. Esso va allargato e reso più dinamico, abbandonando ogni forma di staticità. E per farlo, deve assolutamente tornare agli antichi sentieri di una politica riformatrice, attenta alle nuove ingiustizie che lo sviluppo economico produce. A getto continuo.
(14 aprile 2022)
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