di Vanni Sgaravatti
Spesso sono molto perplesso quando, nel parlare e riflettere, si punta il dito contro Tizio e Caio, colpevoli di immorali malefatte. Perché, al di fuori del concreto agire indotto dai ruoli assunti (se si è giudici o poliziotti o elettori che devono dare le loro preferenze) o al di fuori di comprensibili motti di rabbia quando interagissi con Tizio o Caio, mi dà sempre l’idea che questo “puntare il dito” contribuisca a sviarci dall’occuparci, con un pensiero autocritico, di quelle sfasature di “pensieri, opere ed omissioni” che riguardano più il nostro ambito di controllo, correzione e miglioramento.
E aggiungo che sempre di più nei tempi moderni non conosciamo direttamente gli ambiti in cui operano i bersagli delle nostre critiche, perché Tizio e Caio li conosciamo attraverso la rappresentazione dei media: non sono persone in carne ed ossa del nostro villaggio. Oltretutto, nella psicologia occidentale, mi riferisco al profilo antropologico “weird”, costituisce un elemento centrale nella nostra interpretazione delle relazioni, il rapporto tra disposizioni d’animo e risultato dei nostri comportamenti.
In altre culture, quello che conta sono i risultati. Naturalmente queste differenze le cogliamo quando i nostri ragionamenti critici verso l’altro sono di grana fine: i risultati dei comportamenti di Putin, Hitler ecc. sono talmente evidenti che la distinzione tra giudizi morali, a seconda se i comportamenti sono stati intenzionali e pianificati è di scarsa rilevanza, se non all’interno di specifici studi.
Ma questa attenzione nel non trasformare le critiche verso l’altro in una percezione di nostra diversità e morale superiorità si può persino estendere agli interi sistemi culturali, quando tendiamo a mitizzare o, al contrario, a demonizzare concetti e valori negativi nel nostro contesto e dal nostro punto di vista, per darne un significato assoluto e universale.
Mi sto riferendo, ad esempio, alle parole: “mercificazione”, “accumulo”.
Montesquieu, nello “Spirito delle Leggi” (1749), scriveva: “Il commercio è la cura per i pregiudizi, perché è quasi una regola generale che dove i modi sono gentili ci sia il commercio e dove c’è commercio i modi siano gentili”.
E ancora, Thomas Paine in “I diritti dell’uomo” (1792), scriveva: “Il commercio è un sistema pacifico che contribuisce a stabilire la concordia tra gli uomini, rendendo le nazioni e gli individui utili gli uni agli altri. L’invenzione del commercio costituisce il passo più grande che sia stato finora compiuto verso la civiltà universale con mezzi che non derivino direttamente da principi morali”.
Non solo, ma nell’opera di Joseph Henrich sull’antropologia “Weird”, si leggono i risultati di sperimentazioni e ricerche, articolate e complesse che dimostrano come la cultura famigliare cattolica, ad esempio, con il consolidamento della famiglia monogamica invece di quella poliginica, abbia favorito lo sviluppo e la forza di organizzazioni come la stessa Chiesa, ma anche come le gilde, le congreghe corporative e le istituzioni democratiche. Abbia, inoltre, “matematicamente” permesso a molti più uomini di potersi sposare, diminuendo il tasso relativo di testosterone medio nel corso della vita, aumentando la fiducia verso l’estraneo (l’altro della comunità, non appartenente al clan).
E, in questo contesto, di relativa tendenziale maggiore sicurezza e uguaglianza (teorica, ma soprattutto relativa) veniva favorito la rinuncia al godimento di privilegi immediati a favore di un accumulo di beni per il futuro. La base antropologica per lo sviluppo della società dell’accumulazione.
Ma qual è il messaggio di queste mie sottolineature e quale coerenza tra le riflessioni critiche sul puntare il dito alle malefatte morali di Tizio e Caio e quelle sul sentire che le nostre attuali critiche sociali non sono poi così universali e assolute?
Non voglio certo sostenere che si “stava peggio quando si stava peggio”, mi suonerebbe vagamente immorale perché rischierebbe di diventare una giustificazione per non impegnarsi nel migliorare ora e adesso le tante ingiustizie e tanto meno convincere ad essere concretamente più indulgenti nel combattere i malandrini morali. Ma sostenere che se, a livello individuale, non possiamo sentirci di interpretare l’uomo nuovo, diverso e migliore con la certezza di comportamenti morali completamente ed evidentemente differenti; a livello di sistema sociale, quello che in determinate epoche è stato un passo in avanti verso le condizioni di maggiore uguaglianza e, quindi, benessere, può in altre situazioni capovolgerne il senso.
Come è noto, le modifiche qualitative e quantitative delle relazioni nel sistema del commercio e dell’accumulazione ci hanno resi merci, contribuendo a sfumare la distinzione tra la merce e l’umano. In epoche precedenti, nelle coscienze e nelle percezioni, la differenza tra l’umano e le “cose” era chiara e cristallina. L’accumulazione è poi diventato il segno di fiducia nel futuro e assimilabile nel comportamento della formica, figura retorica molto più positiva della cicala.
Ora c’è la guerra, i commerci ne risentono, sentiamo riapparire i fantasmi di epoche diverse, in cui avremmo benedetto la possibilità di accumulare e scambiare merci, all’interno di un mondo che dà e ha dato a queste parole significati completamente differenti.
Non mi vengono in mente ricette, non abbiamo uomini o ideologie preconfezionate da mitizzare o demonizzare. A me sembra di trovarmi nella situazione degli antichi egizi del biblico racconto: ci capitano addosso tragedie che impattano sul nostro modo di vivere, la pandemia, la guerra. Ma continuiamo a non volere lasciare andare noi stessi verso un’altra via, che ci permetta di attraversare il Mar Rosso. A quando l’arrivo delle cavallette?
Abbiamo paura che poi tutto ci travolga, abbiamo paura di perdere i nostri riferimenti, non accettiamo la metamorfosi verso una meta ignota ed incerta. Tentiamo di immaginare come si possa tornare a come eravamo prima. Al momento e ogni tanto mi viene in mente come non ripetere gli stessi pensieri, una specie di ribellione a schemi e approcci consolidati, ma non mi viene ancora in mente come far emergere il nuovo. Mi consolo pensando alla differenza che Camus indicava tra ribellione e rivoluzione, dicendo sostanzialmente che per rivoluzionare qualcosa bisognava prima dire qualche “no”, non sapendo cosa ci sarà dopo quando dovremo dire “sì”. E poi mi consolo sperando nel caso e nella necessità di Monod, o nell’indeterminismo di Prigogine: possiamo e dobbiamo fare del nostro meglio, coltivando l’idea del nostro libero arbitrio, presunto o “reale” che sia, ma il caso nei punti di svolta (per i laici), il disegno (per i credenti) farà la sua parte: una grande parte.
(12 marzo 2022)
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