di Vanni Sgaravatti
Qualsiasi argomentazione che privilegi il mio benessere a quello dell’altro è irrazionale. La morale è teoricamente razionale, perché parte dall’assunto che io non possa pretendere che non sia fatto qualcosa di male a me, se non sono disposto a barattarlo con lo stesso impegno a favore dell’altro.
Come dice Steven Pinker, nel suo libro “Razionalità”: “non significa che le persone sono morali e razionali, ma che è razionale tendere ad esserlo”.
Quando Platone diceva: “Non abbiamo bisogno di Dio, perché se ci desse degli ordini morali secondo il suo capriccio non dovremmo obbedire ad un Dio capriccioso, se invece lo dà per buoni motivi morali allora non abbiamo bisogno di lui, come mediatore” si riferiva a motivi razionali e comprensibili.
È pur vero che la morale che noi siamo in grado razionalmente di comprendere è di tipo contingente, culturalmente determinata, mentre quella di Dio è assoluta, a cui non accediamo, non fosse altro perché non abbiamo la possibilità di elevarci al di sopra del nostro punto di vista, incarnato nel tempo in cui siamo.
Questo indipendentemente dal credere o meno alle interpretazioni che di questa morale assoluta viene data dagli uomini che, assumendo ruoli “pastorali”, si assumono la responsabilità di tradurla per gli altri.
I non credenti possono comunque vivere principi assoluti morali e di verità che tendano a questa meta, irrealizzabili nel contingente, ma come orientamento e ragione ultima a cui asintoticamente si potrebbe tendere e che dà un senso al processo di continuo perfezionamento.
Sul principio morale di fondo che unisce credenti e non, come è noto, alcuni pensatori, ad esempio, hanno scritto: “i principi di giustizia vengono scelti sulla base di un velo di ignoranza sui propri bisogni” (John Rawls), oppure: “agisci soltanto se quello che fai, vuoi che diventi una legge universale” (Kant); oppure: “gli uomini governati dalla ragione non appetiscono per sé nulla che non anelino per altri uomini” (Spinoza); oppure: “Ciò che odioso per te non farlo agli altri. Questo dice la Torah, il resto è un commento” (Rabbino Hillel).
Se ne deduce che, per lo sviluppo della morale, a partire dai bisogni individuali c’è bisogno di un collettivo, di relazioni sociali.
La morale assume, quindi, un carattere “razionale”, nel momento che la consideriamo “utile”. Un’utilità, però, per l’insieme delle persone, per la “media” dei bisogni, nel tempo, nello spazio.
La morale sociale regola, perciò, la vita delle persone, umani dotati di coscienza che vivono in relazione con viventi senza coscienza o, per meglio dire, senza lo stesso tipo di coscienza, e questo, come è noto, apre altre riflessioni.
La modifica dell’ambiente in relazione alle specifiche esigenze di un individuo, invece del suo adattamento a requisiti dell’ambiente non umano, assunti come dati, è una caratteristica di organismi con stati mentali coscienti con competenze esplicite complesse, come quelle di tipo umano.
La coscienza individuale che collega sentimenti all’identità nostra e del nostro corpo richiede poi l’invenzione di simboli, riti e principi morali esterni per collegare individui, percepiti da loro stessi come unità, alla comunità di appartenenza. Necessità che non emerge nelle specie (non umane) senza questo tipo di coscienza autobiografica “individuale”.
È evidente, quindi, che la “questione ecologica” nasce con l’uomo. Ritualità e segni hanno permesso di definire regolazioni omeostatiche di gruppo, anche nelle formiche e nelle api. Morale ed etica, linguaggio e scrittura hanno permesso agli umani di aumentare l’ampiezza dei gruppi, mantenendone la coesione interna e mantenendo la consapevolezza della propria individualità e, quindi, della propria finitudine.
Ma i confini dei gruppi sono fondamentali per la costruzione di un’identità collettiva e quando la dimensione ha comportato esternalità negative al di fuori di un collettivo che, tramite noti feed back, si sono ritorte contro lo stesso collettivo (cioè quando i problemi ecologici sono diventati planetari) è emersa la necessità di una morale altrettanto planetaria.
I confini, tuttavia, richiedono sempre un dentro e un fuori, un noi e un altro diverso da noi, altrimenti non separano nulla, non permettono di esternalizzare in un simbolo, in una parola, in un segno, in una bandiera, l’identità del noi.
A questo punto sembra che solo l’elemento spirituale, di orientamento universalistico, che trascende il pianeta in cui viviamo e in nome del quale ci dotiamo delle ragioni per preservarne l’equilibrio, permetta di sviluppare questa morale planetaria.
Tuttavia, nel momento in cui diventa prassi e rito, in cui, cioè, l’orientamento alla trascendenza si traduce in una religione secolarizzata si riproducono altre divisioni tra il noi e loro, tra una religione e un’altra.
E siamo da capo, se non peggio, rispetto all’obiettivo funzionale di preservare e sviluppare la vita autocosciente, all’interno di requisiti omeostatici di tipo biologico e culturale che ne permettono la sopravvivenza in stati di relativo benessere.
La complessità della sfida morale sta, in questo quadro di continua ricerca di equilibrio tra dignità individuale e bisogni collettivi. E aumenta la conflittualità esponenzialmente nel momento in cui i confini dei collettivi si ampliano, in cui, cioè, siamo coscienti delle conseguenze sempre più estese dei nostri comportamenti e contemporaneamente della distanza sempre maggiore tra questa estensione, l’ambito delle responsabilità che ci attribuiamo e il livello del contributo di ognuno di noi ai bisogni collettivi.
E tutto questo rende ancora più complesso trovare la giusta via nel considerare l’altro come fine in sé stesso e non come strumento, anche se per fini sociali, soprattutto così estesi.
Se adottiamo la definizione di uomo razionale delle teorie economiche tradizionali, ci parrebbe che la morale sia tutta diversa da un insieme di regole razionali, quando pone dei limiti a scelte politiche basate su calcoli di utilitarismo sociale, cioè su parametri che misurino la qualità delle conseguenze economiche e sociali.
Ma la morale, in realtà, introduce elementi valutativi che travalicano le prospettive dei gruppi che fanno quelle valutazioni, quando dà voce non solo a soggetti dimenticati e discriminati per specifiche responsabilità, ma anche dà voce a bisogni che non possono essere rappresentati perché si riferiscono alle generazioni future. E sembra irrazionale quando impone tabù, appunto morali, che ci obbligano a considerare nelle valutazioni elementi non misurabili, non oggetto di algoritmi, come quelli, ad esempio, che sottraggono la vita individuale al calcolo economico e monetario del suo valore.
In questo ragionamento, mettere la propria vita nelle mani di un’entità trascendente, per i credenti, è, anche in questo caso, una risposta che sembra persino “naturale”: solo questa Entità può assumere non solo nella fede dei credenti, ma persino logicamente, l’insieme di tutte le prospettive presenti e future.
Ma anche i “non credenti”, anche se non fanno riferimento ad un Entità trascendente, possono immaginare la morale come un supporto ad una valutazione più fondata e, quindi, frutto di un processo razionale. Questo se si ritiene ragionevole superare certi calcoli valutativi fatti sempre da una prospettiva individuale, parziale, culturalmente determinata e con un orizzonte pari a quello della durata della vita del soggetto valutante. Paradossalmente proprio “questi calcoli”, possono diventare irrazionali, alla luce di prospettive più ampie nello spazio e nel tempo.
Ma qual è il significato “morale” di questo ragionamento sulla razionalità dell’etica? Quello di smettere di considerarla come materia da idealisti, come un corpo di buoni principi non operativi, non validi per la vita cosiddetta concreta di tutti i giorni.
Prendiamoci almeno la responsabilità di sapere che non scegliamo l’ottimo di lungo periodo, quello che dà senso alla vita cosciente (e non solo) nel suo complesso, perché preferiamo convenienze del momento anche se danneggiano noi stessi e quindi, per questo sono irrazionali.
E non inventiamo che la morale richiede di seguire delle ragioni che il cuore e le passioni non conoscono, perché invece le conoscono benissimo, se solo proviamo ad ampliarne la sensibilità.
Come mai, quando assistiamo senza ruoli operativi nei palcoscenici politici a certi giochi di potere e diplomazia, come quelli riscontrabili nella crisi Ucraina, questi ci paiono irrazionali, senza senso, ma poi attribuiamo a ragioni di real politik un significato razionale? E quando, invece, vediamo un atleta russo abbracciare un ucraino ci sentiamo leggeri e, soprattutto, non ci meravigliamo: per quale motivo dovrebbero non farlo?
La risposta la troviamo ricostruendo a posteriori la razionalità dei comportamenti in quei giochi di potere e diplomazia, come il risultato di reti di “sporchi” interessi, con un complottismo quasi infantile, che ci fa immaginare una consapevole e deliberata pianificazione ex ante del male, un’alleanza di lupi che si spartiscono le pecore. Ma ho qualche dubbio che ci sia una conformità di comportamenti così razionalmente convenienti perché conformi al grande piano del male.
Quindi, sarebbe la morale sociale, che tende a unire e non a dividere, quella al di fuor della presunta logica reale, ad essere irrazionale? O lo sono i limitati calcoli di convenienza di utilitarismo economico-sociale che alcuni imputano al grande ragioniere pianificatore?
Un ragioniere che mi sembra possa esistere solo se attribuita alla figura del Diavolo, il re di tutti i complotti, che sta fuori da questo mondo e dalle nostre responsabilità, se non per quella relativa alla resistenza che i credenti devono porre alle sue malefiche tentazioni.
In conclusione, l’atteggiamento contradditorio e, se vogliamo, irrazionale mi sembra più quello di chi tiene lontano la morale sociale dalla propria vita quotidiana e dalle valutazioni di convenienza, per poi avvertire la nausea della mancanza di quel senso di vita, che proprio la morale si preoccupa di dare.
Una frattura irrazionale che viene riempita da “oggetti” di appagamento al proprio io e al proprio clan, che senza una morale di riferimento regna incontrastato in un mondo di apparenze. Solo una mente estesa per merito delle relazioni, regolate e motivate dalla morale, limita la grande e connaturata stupidità dell’io.
(19 febbraio 2022)
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