di Vanni Sgaravatti
Quando la disuguaglianza la viviamo come l’effetto di una maggiore incertezza rispetto ad altri, perché i risparmi diminuiscono e così la sicurezza per un futuro a cui ci eravamo abituati, o quando facciamo più fatica a trovare un lavoro sicuro, mentre vediamo che le promozioni nel lavoro avvengono non per merito, oppure ancora, perché i costi e i tempi di attesa di chi non si può permettere servizi sanitari privati sono troppo lunghi, allora ci arrabbiamo o siamo presi dall’ansia, qualcuno non dorme bene per i cattivi pensieri e se ne parliamo tra amici a tavola le discussioni si fanno accese.
Quando ci riferiamo alla disuguaglianza nel mondo in cui una parte dell’umanità viene sfruttata e denutrita e ha problemi di sopravvivenza, allora questi diventano discorsi che facciamo a tavola mangiando magari tortellini, sentendoci anche abbastanza buoni perché stiamo pensando a chi sta peggio.
Il sistema capitalistico insieme al liberismo ha portato negli ultimi anni grandi disuguaglianze, ma, anche tramite l’iperconnessione, ad un confronto continuo tra standard di vita e tra accessi molto differenti all’istruzione e ad un confronto con aspettative impossibili, al punto da far dire ad uno scrittore americano sulla quarantina: “Come possiamo credere che la democrazia abbia realizzato le sue promesse per tutti gli americani quando nessuno riesce a stare bene come un personaggio animato dalla pelle gialla che mantiene una famiglia di cinque persone in una casa con quattro camere da letto, con un diploma di liceo e un posto di ispettore di un impianto nucleare?”. Era serio e si riferiva ai Simpson. (citato da Tom Nichols nel libro “Il Nemico Dentro”). Proprio consapevoli dell’agire politico come risposta a queste promesse, Tom Nichols, sottolinea: “… come a Trump, anche a Sanders e ad i loro elettori non importava che i loro piani fossero illusori”.
Per chi ha una mentalità da venditore che cura i propri interessi, i politici sono per lo più indistinguibili se non in virtù della loro personalità e di solito i programmi che appoggiano sono irrilevanti. Quello che conta è far sì che il candidato faccia quello che si vuole o che impedisca agli altri, spesso vissuti come competitors sanguisughe, di ottenere quello che vogliono.
Questa sembra l’ennesima critica di un intellettuale in una democrazia post-industriale, ma agli abitanti di Montegrano sarebbe sembrata semplicemente la descrizione dell’ordine delle cose. Ora sappiate che Montegrano è lo pseudonimo del Comune italiano di Chiaromonte, che fu preso come paradigma di una società arretrata (familismo amorale) in una ricerca antropologica fatta da un famoso ricercatore americano negli anni ’50 e studiata in molti corsi di laurea in sociologia, che mostrava la differenza con l’evoluta democrazia americana, in termini di livello quasi inesistente di associazionismo, di interessi verso i bisogni del proprio clan, disinteresse verso quelli della comunità ed in cui ogni clan pensava all’altro come un competitore a cui togliere risorse per aggiungerne alle proprie. Ora, molti americani dicono di essere diventati peggio persino degli italiani di Chiaromonte degli anni ’50 (consoliamoci sapendo che Chiaromonte è in provincia di Potenza, allora fatta da agricoltori e possiamo così sentirci, quindi, molto diversi da loro). Potremmo sintetizzare tutte le considerazioni sull’argomento, a partire dai risultati della ricerca su Montegrano che: “senza la convinzione di base che il bene della famiglia e il bene della società sono intrecciati e si rafforzano a vicenda, le istituzioni democratiche diventano poco più di vantaggi temporanei e i valori democratici diventano fastidi”. Ma, chi di noi non è oggi d’accordo con questa considerazione? Non ne conosco.
Ma facciamo due esempi: a) un amico ci offre i suoi servizi da professionista, facendoci risparmiare non emettendo regolare fattura oppure una collaboratrice ci offre i suoi servizi facendoci risparmiare nello stesso modo; oppure b) amici medici mi permettono di accedere a servizi sanitari, evitando lunghe file di attesa, quando ad esempio le criticità sanitarie riguardano i nostri figli e siamo preoccupati.
Siamo particolarmente ipocriti se accettiamo questi privilegi, ma concordiamo con la prima fase? Non del tutto.
Quando pronunciamo il principio morale, siamo convinti che sia giusto. In quel momento noi siamo osservatori esterni di una collettività, posta al di fuori di noi. Ma quando tocca a noi, allora la prospettiva cambia, il “collettivo” non è posto fuori di noi. In un momento successivo, il portavoce di noi stessi trova tante giustificazioni di quel po’ di disimpegno morale: se vivessi in una società equa e giusta, se non ci fossero altri che fanno ben peggio di questo, ecc. (il grande psicologo argentino Bandura ha scritto un libro di 800 pagine su queste giustificazioni).
Devo ammettere che il sottoscritto, che riflette su questi argomenti, al dunque, commetterebbe gli stessi “peccati” sociali, in particolare se le amicizie gli permetterebbero di curare velocemente sua figlia.
Però questo mi fa riflettere sulle critiche che ognuno di noi fa, ad esempio ai politici che vediamo alla televisione cercare di negoziare per nominare un Presidente (è davvero solo un esempio), e li vediamo esterni a noi osservatori, oppure diamo del ladro a qualche pubblico ufficiale che riceve gratuitamente servizi di ristrutturazione del proprio appartamento.
Non ho alcun dubbio sul fatto che dobbiamo preoccuparci e che dobbiamo spingere a difendere una comunità ed evitare che ciò succeda, ma l’energia per questa difesa la troviamo anche in condanne morali che ci fanno sempre sentire diversi. Ma, io, non avendo servizi da scambiare che valgono la gratuita ristrutturazione del mio appartamento, non ho la prova che in quell’occasione mi comporterei diversamente o non adotterei alcune giustificazioni morali che mi permetterebbero di farlo. Posso suppore che così non sarebbe, ma non lo so. Rileggendo le mie divagazioni, mi rendo conto, però, che qualcuno, prima di me, è stato più sintetico e ha detto: chi non ha peccato scagli la prima pietra.
Ma tornando al pericolo che una divergenza tra i bisogni individuali e quelli collettivi portino al degrado della democrazia, alcuni dimenticano che Orwell in “1984” non parla solo del protagonista che con la sua storia d’amore viene violentemente represso, ma mette in scena anche i prolet massa di persone non pericolose per il potere, perché inseguono problemi e soddisfazioni quotidiane, che riportati al giorno d’oggi potremmo caratterizzare come persone che si aggirano tra 200 canali sportivi, birre, gnocco fritto, fino a che “sarà difficile alzarsi dal divano”.
E altrettanto inquietante è, in questo senso, le battute profetiche pronunciate nel film: “I Tre Giorni del Condor”: “Se non avessi scoperto e disturbato il piano di occupazione del Medioriente, cosa sarebbe successo?”. Risposta di Higgins: “Allora lo avremmo fatto era un buon piano, …, il problema è economico oggi il petrolio e domani il plutonio. Questo la gente vuole”. Il protagonista, interpetato da Robert Redford, continua: “Perché non lo chiedete alla gente?” E Higgins: “Lo chiediamo al momento giusto quando mancheranno le risorse che servono per utilizzare i beni e i servizi che le persone a quel punto si aspettano di avere”.
Le élite governeranno non per un piano segreto della spectre, ma per collusione con i bisogni della gente che, in verità, non vogliono neppure gli si chieda cosa vogliono, ma che si provveda a permetterne il godimento. E le visioni distopiche ci fanno intravedere cittadini tecnicamente evoluti che conviveranno con i sotto-prolet delle periferie. E così, senza freni alla tendenza verso un impulsivo e incontenibile di disporre di beni e servizi di consumo appaganti dei propri bisogni, dilaga “Il narcisismo delle piccole differenze”. Una volta che le persone scoprono quello che le rende diverse, più che quello che le accomuna, si concentrano su queste differenze e le trasferiscono sulla politica per entrare in una tribù.
Quelli di Meta barra Faceook dichiarano che i loro algoritmi sfruttano l’attrazione del cervello umano per le divisioni. Questo tribalismo si deteriora diventando narcisismo di gruppo, che richiede come ogni forma di narcisismo, una rassicurazione costante e i notiziari via cavo e i social network sono ben felici di darla in cambio di attenzione e di click. I social media incoraggiano la tendenza umana a premiare il conflitto come se fosse uno sport spettacolare.
Ma noi riusciamo ad avvertire come una minaccia questa inconciliabilità tra bisogni individuali e collettivi che fanno intravedere visioni distopiche del futuro. Perché non cambiamo se, molte persone, illuminati intellettuali o credenti in fedi religiose, si rendono conto, quando ci poniamo come osservatori delle comunità, posti al di fuori di noi, che: si amano le cose e si usano le persone invece di usare le cose e amare le persone?
Come contrastare questa tendenza, quale nuova etica ci può aiutare?
La genealogia della morale, dal punto di vista antropologico, ci dice che questa ha permesso di orientare i comportamenti individuali verso il benessere della comunità, senza aver bisogno dello sguardo vigile, controllante e riprovevole dei compagni del clan (cacciatori raccoglitori) e quindi come elemento di coesione sociale per relazioni anonime ed estese. Noi però manteniamo una sensibilità morale a geometria variabile o meglio proporzionale alla distanza da noi, posti al centro: famiglia, amici, colleghi, cittadini, conterranee ecc. ecc.; ma se abbiamo costruito tecnologie tali che permettono ai comportamenti locali di incidere su problemi di livello planetario che, a loro volta, incidono sui soggetti locali non avremmo bisogno di una morale di supporto a relazioni di tipo planetario?
Mi sa che allora non ci siamo proprio: i tempi storici sono molto diversi dai tempi biologici e dai tempi di sviluppo culturale, verso qualche auspicabile universalità della morale.
Il senso della vita rimane però quello di continuare a provarci.
(5 febbraio 2022)
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