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Disuguaglianza sociale e cambiamento etico delle organizzazioni #gaiambiente

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di Vanni Sgaravatti, #gaiambiente

È vero il “progresso esiste”, negli ultimi tre secoli il reddito medio mondiale si è decuplicato: da una media di 100 euro al mese ad una media di 1.000 euro, a parità di valore monetario del 2020 (come ricorda Piketty nel suo ultimo libro “Una breve storia dell’uguaglianza”).

Ma lo stesso Piketty sottolinea anche che questo indicatore non dice molto, considerato che, a seconda di come è composto il paniere dei beni e servizi su cui si fondano i calcoli, il progresso può andare da una crescita di 2 volte ad una di 20 volte, dai 100 euro di media al mese si passerebbe ai 200 euro nel primo calcolo, a 2.000 euro nel secondo. Per non parlare della disuguaglianza in cui ancora adesso in alcune zone del pianeta il reddito medio è rimasto uguale alle 100 euro al mese di 3 secoli fa.

Inoltre, bisogna prestare attenzione agli indicatori monetari: il “pil (prodotto interno lordo), ad esempio, è molto diverso dal “reddito nazionale”. Nel primo caso, ad esempio, una produzione di 100 milioni di dollari di petrolio fa crescere il pil della stessa cifra, nel secondo, quello del reddito nazionale, la crescita è pari a zero, perché va detratto il consumo ambientale di pari valore, derivante dal petrolio estratto ed è persino decrescente, se teniamo conto delle esternalità negative prodotte dalla CO2 emessa.

Inoltre, i confronti non possono basarsi solo su indicatori monetari: la maggiore intensità produttiva richiede un consumo di calorie maggiori, quindi di fabbisogni di alimentazione, produce una maggior tasso di malattie professionali, talvolta uno sradicamento culturale e una destrutturazione delle relazioni che incidono sul benessere, quanto la povertà materiale.

Ma quello che appare davvero dirompente è il problema ambientale: l’accumulazione e la crescita, meccanismo fondante del sistema capitalistico, necessaria per permettere e registrare questo “progresso” e la conseguente crescita demografica (che ha decuplicato la consistenza dei sapiens e degli animali domestici) hanno consumato e stanno consumando le risorse ambientali oltre il limite della sostenibilità e fattibilità dello sviluppo.

Ma il fattore più dirompente sta che questa insostenibilità rompe lo schema e la narrazione neoliberista utilizzata per tenere in piedi le disuguaglianze che, entro un certo limite, sono state il motore della crescita, fondata sul divario tra costo delle risorse acquisite e sfruttate e valore della produzione, configurando così uno sviluppo in costante debito con le risorse umane e ambientali sfruttate.

Tale rottura radicale spinge, almeno in teoria, ad un altrettanto radicale cambiamento, così da configurare una specie di metamorfosi, ma, per converso, mette in moto anche forti retroazioni per riportare e mantenere il sistema attuale alle caratteristiche di fondo attuali.

Il limite della disuguaglianza accettabile è sempre stato un parametro che ha influenzato le stesse politiche economiche. Si potrebbe citare, ad esempio, la frase di quel nobile inglese che osservando le proteste sociali a Londra nell’era della prima industrializzazione, constatò come fosse necessario essere imperialisti per trovare mercati esteri di lavoratori e consumatori che allentassero tali proteste. Un’altra motivazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, per spingere alla colonizzazione.

In coerenza con le criticità sociali e ambientali, le misure del welfare territoriale e non solo specificatamente aziendale, delle imprese private, in particolare quelle grandi, sembra un tema di gran moda. Si narra, però, che il patron della Nike, che destinò 400 milioni di euro alle università e alle borse di studio aveva prodotto una ricchezza personale di 63 miliardi di euro e aveva chiuso decine di stabilimenti nelle Filippine, spostandole in Vietnam, perché i lavoratori filippini chiedevano un cent di aumento nello stipendio. Se ne dedurrebbe, che tali misure di welfare territoriale, davvero apprezzabili e necessarie nella loro specificità, assumano un ruolo contenitivo delle tensioni sociali e territoriali.

“Fare l’elemosina” (non si vuole dire che il welfare territoriale privato lo sia) è davvero un’azione auspicabile e meritevole, anche se la si facesse per guadagnarsi un pezzo di Paradiso. Fare la carità, cioè l’effettiva elargizione del superfluo è cosa buona e giusta. Il problema può sorgere quando se ne parla e se ne fa una narrazione che permetta di considerare il sistema attuale, con i relativi privilegi e privilegiati come l’unico e il migliore possibile.

Sarebbe intellettualmente onesto, invece, se il sostegno al sistema di welfare territoriale privato e alla “carità” fosse accompagnato da classi “dirigenti” che recitassero il detto: “si sono mai visti i tacchini che si mettono nel forno da soli?”, intendendo con questo: rimaniamo in attesa dei conflitti sociali che ci obbligheranno a modificare i rapporti di potere e che non possiamo essere noi a promuovere.

Senza immaginare necessariamente che ci si debba aspettare la “presa del palazzo d’inverno”, la resistenza al cambiamento radicale delle classi dirigenti la si è riscontrata nelle difficoltà ad espandere i sistemi di cogestione, nella separazione, cioè, dei poteri reale tra proprietà e gestione e, infine, nella difficoltà ad evitare di considerare le persone che lavorano unicamente risorse umane e strumentali. O che, nel migliore dei casi, possono essere viste come portatrici di una doppia identità, risorse umane quando sono dentro ad un ruolo professionale, persone quando sono fuori dal ruolo e fuori dai confini dell’impresa.

Nel riflettere sull’orientamento etico dell’agire sociale e organizzativo, in clima di emergenza pandemica e ambientale, si sostiene che se le minacce sono epocali, il cambiamento che questa induce non può non essere che una vera e propria metamorfosi.

La paura di tale radicalità, ci aiuta, allo stesso tempo, a riconoscere un meccanismo di retroazione e di freno a tale cambiamento, proprio in quell’atteggiamento “conservatore” che, al contrario, non può che seguire il credo: “non c’è nulla di nuovo sotto questo sole” per sostenerlo con una coerente ed efficace narrazione, giustificatrice dei propri intendimenti, appunto, conservatori.

Ma, tra i principali orientamenti etici, il più profondamente rivoluzionario e culturale in ambito delle realtà organizzative, in quanto alla base di altri comportamenti etici, è quello di non considerare le persone come risorse, cioè come mezzi da utilizzare per giustificati fini. Persino per quei fini considerati etici da qualcuno, solitamente appartenente alla classe dirigente.

E sempre se di cambiamento profondo a livello socio organizzativo si parla, difficile immaginare che tra criteri per il perseguire un comportamento etico non ci sia quello di non separare l’orientamento strategico, talvolta oggetto di dichiarazioni autoingannatrici, dal livello operativo, quale, ad esempio, quello che attiene ai modelli organizzativi che accompagnano il cambiamento per realmente attuarlo.

Il modello definito di “autorganizzazione”, così come è stata attuato sia in realtà produttive (in Francia come in Sudamerica), che in quelle di servizi alla persona come quella infermieristica olandese, spesso coincidenti con l’appartenenza alla categoria delle benefits corporation (il cui Statuto stabilisce che la massimizzazione del profitto non è l’unico obiettivo finale) è quello in cui la stessa struttura emerge dal basso. Modelli che promuovono alcune caratteristiche in cui non ci sono incentivi all’agire dei singoli dirigenti e lavoratori basati su premi di risultato di produttività al di fuori dell’eticità degli obiettivi da raggiungere, né incentivi basati sull’acquisizione di ruoli a cui sono collegati privilegi di status socioprofessionali.

L’” autoorganizzazione” sembra essere per molte situazioni, in particolari in un contesto in continua emergenza, il modo migliore per affrontare il dilemma della complessità esterna in continuo aumento e mi pare l’unico modo che permetta di sfuggire alla contraddizione tra: “non considerare una persona come una risorsa umana”, strumentale alle esigenze dell’organizzazione e la necessità di “finalizzare le attività e le risorse necessarie per raggiungere obiettivi collettivi della stessa organizzazione”.

E forse potrebbe essere il modello giusto per superare la più classica alienazione: quella in cui si passa il maggior tempo in un luogo dove si vive per finalità individuali che stanno altrove e dove si vivono relazioni strumentali, quando l’individuazione delle proprie finalità e l’autenticità delle relazioni non piovono dal cielo e avrebbero bisogno costante di quelle energie che non si leggono negli occhi del lavoratore stanco al ritorno da quel luogo, quello di lavoro.

Del resto, come si può immaginare di realizzare servizi a misura della persona e non di un utente, ad esempio nell’assistenza sociosanitaria, se la validità di chi lo eroga o chi assiste viene misurata solo da parametri stabiliti da altri in luoghi diversi da dove la relazione si vive, con il rischio della perdita della passione e della vitalità di chi opera in tali servizi?

Certo non è con questo articolo che si possono approfondire il percorso per l’adozione graduale e tendenziale di un modello di autorganizzazione, ma in fondo sono cinque le regole principali che si possono citare: favorire l’emergenza dal “basso” della struttura organizzativa; interconnessione, condivisione, ridondanza e riconfigurazione-adattamento (compreso la dispersione se attaccati da una minaccia “mortale”).

E tra le diverse conseguenze di questo tipo di organizzazioni, negli approcci operativi, se ne possono citare almeno due: considerare la pianificazione come strumento cognitivo utile ad illuminare più il presente che il futuro, effettuare una valutazione dei rischi dell’impatto sociale, ambientale ed economico dell’innovazione attraverso un percorso partecipativo e non solo algoritmico razionale.

I leader che emergono in questo percorso verso l’autoorganizzazione sono più dei catalizzatori, punti di attrazione verso una direzione del sistema, più che soggetti che pianificano il futuro.

Questa visione della leadership ha anche una conseguenza in ambito politico sociale.

Quando si agisce, si combatte o ci si contrappone ad un potere costituito l’azione può prendere a bersaglio anche i leader, consapevoli e questo può svolgere la funzione di effetto leva per un cambiamento, rivoluzionario o riformista che sia. Ma quando si cerca di comprendere le dinamiche del sistema che “non ci piace”, la concentrazione cognitiva sui leader come cause, pianificatori e agenti consapevoli degli effetti indesiderati diventa fuorviante e distraente rispetto all’individuazione del vero senso del cambiamento.

 

 

(24 novembre 2021)

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