di Giuseppe Enzo Sciarra, #Cinema
“La morte della bellezza” recitava il titolo di uno struggente e malinconico romanzo di Giuseppe Patroni Griffi. Un titolo memorabile per parlare del destino infausto di un amore di gioventù ai tempi del secondo conflitto mondiale, perfetto per evidenziare la natura transitoria dell’essere umano in questo mondo tanto bello quanto crudele, in cui potersi sentire liberi è una conquista pagata a caro prezzo.
“Il ragazzo più bello del mondo”, il documentario di Kristina Lindström e Kristian Petri, ci parla della bellezza, della sua morte esteriore e della sua rinascita intesa come riconoscimento di se stessi ad alta voce, perché la storia dell’attore Björn Andrésen, noto per essere stato lo splendido Tadzio di Morte a Venezia (1971) di Luchino Visconti è un canto e al contempo un urlo di dolore, le cui parole sono fremiti di un animo provato da paure e tragedie. Nel 1970 il comunista di sangue blu, Luchino Visconti, regista acclamato in tutto il mondo, era alla ricerca di un adolescente bellissimo che incarnasse il suo ideale di fanciullo proibito e invidiato – perché noi omosessuali invidiamo ciò che amiamo e desideriamo possedere. Lo trovò dopo una estenuante ricerca in uno splendido adolescente quindicenne svedese verso il quale diresse tutte le sue fantasie. Visconti era poco interessato alla paura e al pianto che racchiudevano la sua idea di bellezza, Andrèsen era una divinità senza tempo, un Frankstein dalle sembianze efebiche ai suoi piedi, necessario non solo al suo ennesimo capolavoro, ma anche per farne il proprio oggetto del desiderio come l’omonimo protagonista del romanzo di Thomas Mann. Ed è qui che esplode l’accusa di Björn Andrésen che giustamente si è sentito usato e oggettualizzato dal grande regista italiano perché non visto per quello che era: un ragazzino impaurito dalla fama improvvisa e dalle morbose attenzioni di un cineasta forse più sottomesso alla libido che alla sua creazione artistica – anche se il film non ne ha risentito perché è stato il suo ennesimo capolavoro.
“Il ragazzo più bello del mondo” è un documentario che smaschera tutto quello che non riusciamo a vedere dietro la bellezza, oggi più che mai in un mondo in cui la bellezza è uno strumento di potere economico e politico, all’interno di una società capitalista che fagocita tutto e tutti, non ce la facciamo proprio a osservare i nostri simili per quello che sono senza idealizzarli o demonizzarli per il loro aspetto esteriore.
Björn Andrésen è invecchiato, di quel Tadzio che soggiogò Visconti e il mondo intero non c’è più traccia in quelle pesanti rughe, cicatrici di terribili sventure e di una grave depressione che sembra accompagnarlo da sempre. Nonostante l’attore viva in uno stato di indigenza e solitudine però, finalmente lo sentiamo più vicino a noi, non è più un oggetto da venerare e ambire per trarne potere, ammirazione e invidia. Andrèsen è umano, solo, vulnerabile, meravigliosamente imperfetto e inquieto, un’anima bella, bisognosa disperatamente d’amore che si mostra nelle sue vere sembianze; la sua anima è nuda, la gioventù non gli appartiene più, ormai è invecchiato, disperato come Gustav von Aschenbach, il personaggio di Morte a Venezia.
E in questo meraviglioso e imperdibile documentario si rivede e scorge da lontano, in quelle acque del lido di Venezia in cui è apparso come messaggero di morte, quello che è stato un’epifania dell’uomo alla ricerca di dio in una bellezza transitoria che andrebbe ridimensionata per farci sentire esseri meravigliosi e irripetibili nelle nostre imperfezioni.
(16 settembre 2021)
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