di Vittorio Lussana, #Giustappunto
L’insediamento di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti consente un sospiro di sollievo, dopo i 4 anni di pesantezza ammorbante e ripetitiva di Donald Trump. Ma i fatti di Capitol Hill del 6 gennaio scorso segnalano alcune novità. Innanzitutto, la questione del voto per posta. Ciò che, infatti, aveva realmente sconfitto la Clinton nel 2016, era stato soprattutto l’astensionismo dell’elettorato democratico. Negli Usa, infatti, quando qualcuno si dimentica di passare al seggio elettorale, tale negligenza non viene ritenuta grave: è già molto se almeno uno dei componenti di un nucleo familiare qualsiasi si è ricordato di farlo. Al contrario, il voto per posta ha favorito la possibilità di esprimersi a interi gruppi familiari, consentendo ai ‘democrats’ americani di riprendersi il proprio bacino elettorale praticamente per intero.
Barack Obama, attraverso l’uso dei social, era riuscito a risvegliare l’interesse di categorie sociali che alla politica non credevano più. Ma dopo di lui, gli americani sono tornati a ripiegarsi su se stessi e nel privato, poiché nel frattempo sono sorte questioni nuove. Ma a problemi nuovi non si risponde con ricette vecchie. E credere che basti ignorare l’irriducibilismo nichilista a cui la globalizzazione ha condotto gli strati sociali più deboli delle nostre società, significa commettere un grave errore. Pertanto: a) il voto per posta, giustificato dalla pandemia da Covid 19, ha dato modo a interi nuclei familiari americani di potersi esprimere senza rischi, moltiplicando i consensi: ogni singolo voto democratico che nel 2016 era andato a Hillary Clinton, questa volta è mediamente raddoppiato e, in alcune famiglie americane, si è addirittura moltiplicato per 4; b) in fondo, l’esperimento Trump è servito a mettere definitivamente in guardia l’opinione pubblica in merito a una ‘malattia’ di cui il capitalismo ha sempre sofferto, sul fronte sociale: quello della sua degenerazione razzista, classista e autoritaria. Una patologia che, spiace ricordarlo, anch’essa appartiene all’album di famiglia del modello occidentale.
Il crollo delle ideologie e la fine del socialismo ‘coattivo’ marxista ci aveva condotti a sperare nella fine di tutti i totalitarismi, anche quelli più reazionari e di destra. Ma le cose non stanno così: il modello capitalista globalizzato possiede una serie di problemi congeniti, che tendono a trascinarlo verso la ‘chiusura’ individuale e conservatrice. Insomma, il caso Trump non è sorto per caso. E non si può intestare ogni responsabilità per quanto accaduto solo alla noiosa retorica del ‘politicamente corretto’. Il vero problema rimane quello di alcune ‘maschere beffarde’, dietro le quali il capitalismo tende, ancora oggi, a nascondersi allorquando si ritrova in difficoltà.
Si tratta, in realtà, del medesimo problema che ebbe la sinistra giovanile nel 1968, quando trasformò la propria contestazione in una sorta di ‘carnival estudiantin’. Oggi, la tendenza attecchisce a destra. Ma ciò non accade in seguito a un ribaltamento ideologico che avrebbe condotto il progressismo mondiale a diventare “neoliberista”, come pensa qualcuno: la sinistra sta solamente cercando di rientrare nell’alveo delle culture gradualiste e riformiste alla quale essa appartiene. Si tratta di un processo di revisione molto complesso, questo è senz’altro vero. Ma non sono le dottrine progressiste ad aver sposato a ‘occhi chiusi’ uno sviluppo ‘piatto’, non accompagnato da culture e valori che ne limitino gli effetti distorsivi, caricaturali e, persino, mortiferi. Al contrario, le sinistre di derivazione massimalista hanno il problema contrario: risultano, ancora oggi, prive di un’identità precisa, ben delineate.
Il vero problema rimane quello di una globalizzazione che sta esaltando lo sviluppo tecnologico esattamente come, all’inizio del XX secolo, si lanciò a capofitto nella meccanizzazione e nell’industria pesante, come capitato alla Germania degli Hohenzollern o agli stessi Stati Uniti, con l’imposizione nelle fabbriche del modello ‘taylorista’ e, in seguito, ‘fordista’. Ma la questione di una modernizzazione dotata di equi meccanismi di redistribuzione della ricchezza, nonché accompagnata da culture e valori di riferimento, è rimasta totalmente inevasa.
Non si tratta, insomma, di un problema che riguarda solo alcune classi sociali, ma l’intera popolazione. E ciò accade proprio perché, nelle tempistiche storiche, ancora oggi scontiamo una serie di errori devastanti commessi nel XX secolo. Il terrorismo fondamentalista islamico, tanto per fare un esempio, ha le sue radici nel Trattato di Sèvres del 1920 e nella questione dei ‘mandati’ sui vecchi possedimenti ottomani. E i flussi migratori che stiamo subendo dall’Africa discendono dal colonialismo imperialista imposto ai Paesi del Terzo mondo al Congresso di Berlino del 1884/85 e dalla successiva fase neo-colonialista, tesa a sfruttarne le risorse. I vari tentativi rivoluzionari, di destra o di sinistra, hanno sempre dimostrato di non riuscire a incidere, né a invertire, tali tendenze dello sviluppo tecnologico, che disumanizzano la società. Persino i cittadini dell’Unione sovietica e i popoli dell’ex Europa orientale erano diventati dei consumatori, trasformandosi in piccolo borghesi.
Insomma, riesumare dall’armadio le antiche uniformi assolutiste può servire a rispondere a problemi immediati, ma non è in grado di dare una direzione, un indirizzo di fondo alla società, complicando anche l’andamento economico. Il superomismo nazionalista finisce col rivelarsi statico, poiché tende a chiudere la società in una sorta di ‘gabbia senza tempo’. Come nel caso italiano, in cui le persone vivono nella convinzione che tutto sia fermo e che gli anni non passino mai. E’ uno ‘strascico’ di fascismo, ma all’orecchio dell’italiano medio questa critica non piace e fa finta di non sentirla. Invece, nei Paesi a capitalismo avanzato, come negli Stati Uniti o nello stesso Regno Unito, la questione diviene la tendenza a far correre il ‘cavallo’ dello sviluppo a ‘briglie sciolte’, fin quando non finisce in un baratro trascinando tutti quanti con sé.
Il capitalismo rimane un modello economico ‘animalesco’. E una moderna cultura progressista e di sinistra deve trovare il modo di domare la ‘bestia’ al fine di guidarla, per farla andare al trotto nei cicli recessivi e al galoppo in quelli di crescita. Addomesticare lo sviluppo: questa è, oggi, la sua parola d’ordine. Ma tale diagnosi è condivisibile anche dalle culture conservatrici o di destra, al fine di gestire il gioco democratico in maniera condivisa, senza troppe nostalgie per il passato: un errore che il Regno Unito rischia di pagare a caro prezzo. Perché la Storia, purtroppo, non insegna mai nulla.
(21 gennaio 2021)
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