di Vittorio Lussana #Giustappunto twitter@gaiaitaliacom #Politica
Interessante la diatriba giuridica esplosa alcune sere fa tra la politologa Sofia Ventura e Marco Travaglio a 8 e mezzo, in merito alla decretazione d’urgenza e all’utilizzo dei relativi decreti amministrativi. Il dilemma si è creato sul fatto che i Dpcm del presidente del Consiglio possano andare a ledere, temporaneamente e in casi limitati di necessità, le libertà individuali dei cittadini. Un’antica querelle, su cui si è spesso pronunciata anche la Corte costituzionale in anni lontani e su cui si sperava di non tornarci sopra, se non per rispolverare un dibattito dottrinario.
E’ chiaro, infatti, che il parlamento debba, ogni tanto, essere tenuto in considerazione, poiché non si può fare tutto attraverso dei regolamenti come i Dpcm, anche se essi si richiamano a una legge o a un atto avente forza di legge come il decreto vero e proprio. Tuttavia, il Dpcm è un atto amministrativo che risulta anch’esso fonte di diritto, pur se di livello inferiore rispetto alla legge ordinaria. Esso trae i suoi effetti concreti da una particolare circostanza, come previsto nei casi di emergenza sanitaria, di emergenza nazionale o nello stesso Stato di guerra in caso d’invasione da parte di un esercito straniero. I Dpcm, insomma, sono giuridicamente legittimi, poiché possiedono una giustificazione formale – il decreto del 6 marzo 2020 – e una sostanziale: debbono incidere su una o più condizioni particolari.
In tal senso, anche l’atto amministrativo di un comune terremotato che impone la non agibilità di una casa gravemente lesionata dal sisma – costringendo i residenti a trasferirsi dai parenti, oppure ad accettare una sistemazione temporanea in albergo a spese dello Stato – possiede la possibilità di risultare prioritario sulla libertà privata del cittadino e, persino, sulla proprietà privata. E’ la tesi dl professor Zagrebelsky, che non a caso è un ex giudice della nostra Corte Suprema. E per dimostrare che anche il regolamento o l’atto amministrativo deve avere, in particolari circostanze, la possibilità di dispiegare i suoi effetti, si ricorda che tale ragionamento vale persino per quegli atti amministrativi di esproprio che lo Stato o un ente locale – un Comune o la Regione – deve eseguire per questioni di pubblica utilità (costruzioni di ferrovie o autostrade), pur prevedendo risarcimenti per chi è costretto a cedere un lotto o un terreno.
Dispiace per la signora Sofia Ventura, la quale ha comunque avuto il merito di sollevare una questione su cui gli italiani non sono mai stati edotti o informati da nessuno, ma ha ragione Travaglio: negare all’atto amministrativo, in certe circostante materiali e ottenuto il voto formale del parlamento su un decreto originario, di dispiegare i suoi effetti, significa impedire allo Stato di “fare lo Stato” quando ciò si rende necessario, togliendo elasticità a tutto il nostro ordinamento. Siccome qui da noi si è sempre diffusa l’idea che lo Stato sia sostanzialmente un nemico – o addirittura un aguzzino – nei confronti dei cittadini, si finisce col contestargli anche la possibilità di intervenire in tempi rapidi quando esso, o un qualsiasi ente pubblico in generale, è tenuto a farlo, poiché chiamato a svolgere esattamente la funzione per la quale è prevista l’esistenza stessa dell’interesse pubblico, statale o nazionale che sia.
Ecco per quale motivo siamo di fronte a un’evidente distorsione democratica della nostra classe politica: una parte di essa rimane abbarbicata al dogma: “Io non la bevo”, secondo una logica ancor più materialista di quella degli italo-marxisti semmai esistessero ancora, a più di 30 anni dalla caduta del muro di Berlino. Le nostre forze politiche proprio non riescono a legittimarsi a vicenda nei loro rispettivi ruoli, di governo o di opposizione. Oltre a questo, qui da noi vige una sorta di trionfo della libertà privata e personale, che arriva a pretendere di poter resistere al diritto pubblico, giustificando anche i comportamenti più disdicevoli. Un’idea che, tuttavia, non è una accusa di anarchia nei confronti degli italiani, bensì di accidia prelatizia verso una classe politica, quella democristiana, che a lungo si è silenziosamente disimpegnata dal trasmettere un minimo di senso civico ai cittadini. Una lunga, lunghissima ipocrisia, di cui soprattutto i cattolici sono colpevoli.
Il senso civile degli italiani, infatti, è un cardine culturale laico che è sempre appartenuto alla classe liberale pre-fascista, alle idee di socialismo democratico e liberale prima di Giuseppe Saragat e, in seguito, di Bettino Craxi e persino al mondo comunista, se considerato nell’ottica laica di giuristi come Paolo Barile e Stefano Rodotà. L’errore comunista fu, invece, proprio quello di aver preferito amoreggiare con il mondo cattolico, piuttosto che denunciare la scarsa volontà di quest’ultimo, con la sola eccezione di Aldo Moro e pochi altri, di fornire agli italiani quelle basi culturali per l’assorbimento di quel senso dello Stato che li aiutasse ad affrancarsi dal proprio individualismo egoistico e qualunquista.
La questione, insomma, ha evidenziato una lacuna culturale profondissima, che per lungo tempo ha causato la non applicabilità della nostra Costituzione in senso pieno. Una scorrettezza silenziosamente messa in atto dal lungo dominio cattolico-democratico, il quale si è spesso dimostrato molto cattolico, ma assai poco democratico. Ed ecco spiegato per quale motivo, purtroppo, anche parte della borghesia laica, storicamente sottorappresentata qui da noi, sia ancora oggi più abituata ad allearsi con forze eversive e menzognere, anziché decidersi ad aprire un discorso ben più serio, in merito ai valori di fondo che dovrebbero innervare la nostra dialettica politica quotidiana. Può darsi che si tratti di una sorta di odio ideologico di ritorno, dopo i lunghi decenni di populismo di sinistra: il “fascismo degli antifascisti”, come lo chiamava Pier Paolo Pasolini. Ciò non toglie che, risolta la questione della lotta di classe da una parte, adesso siamo di fronte alla conflittualità dei qualunquisti dall’altra, disposti ad allearsi con le peggiori sette del cattolicesimo reazionario, capace di escludere persino la psicologia e la psichiatria dal novero delle scienze sociali. Prima avevamo a che fare col materialismo storico gramsciano; oggi, dobbiamo impegnarci a contenere il materialismo cronico. Quel conservatorismo statico, capace di teorizzare unicamente un mondo immobilista e perennemente frenante.
(15 ottobre 2020)
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