di Vanni Sgaravatti #gaiambiente twitter@gaiaitaliacom #Etica
Se da una parte il mondo appare incerto e confuso, un mosaico di esperienze difficilmente ricostruibili da un’unica narrazione, vissuto con frammenti di identità non ricomponibili, dall’altra visioni e metafore di interpretazione della realtà emergono da diverse discipline e convergono verso una coerente rappresentazione. O almeno così appare alla riflessione di alcuni.
Una nuova visione della realtà
Parlo del contributo fornito dalla fisica e dalla filosofia della scienza a questa rappresentazione convergente, cioè del passaggio da una visione atomistica “newtoniana” della realtà, costituita da elementi indipendenti ad una visione relazionale (e indeterminista), in cui l’esistenza si manifesta nel rapporto tra elementi, e che, prima ed al di fuori della loro relazione, a questi elementi può essere attribuita solo una probabilità del loro “manifestarsi”.
Cito, come solo esempio di rilevazione di una caratteristica di una manifestazione, quello riportato da Rovelli in Helgoland sulla velocità di una persona che corre in una barca su un fiume e che assume 4 valori tutti “veri” a seconda se il suo correre è posto in relazione alla barca, al fiume, alla riva o al sole.
Ma non è tanto il contributo della fisica quantistica alla rappresentazione del mondo quello di cui voglio parlare, ma di come questa si salda ad una rappresentazione che considera la relazione al “centro” della convivenza sociale e, quindi, politica. Passando, come dice Floridi nel “Il verde e il blu”, dalla res pubblica, alla ratio pubblica, dal contratto sociale al trust fiduciario, in cui ogni componente trova un senso nella relazione e fornisce un “senso” alla relazione e, quindi, alla propria esistenza, e, se consapevole di questo esserci nella relazione, assume una responsabilità nel prendersene cura.
Proprietà e disuguaglianze
Mettere al centro la relazione e il trust fiduciario, in cui i componenti della relazione assumono ruoli di donatore, beneficiario o gestore dei patrimoni materiali e immateriali, che cambiano nel tempo (come ricorda Floridi), significherebbe, però, rivedere la logica proprietarista. Cioè quella giustificazione di una realtà sociale ed economica basata sulla sacralizzazione dei diritti di proprietà di unità/entità indipendenti (i proprietari, appunto) “sulle cose”, “sulla natura” e, in passato sulle persone.
È stato un supporto ideologico alla narrazione giustificatrice dell’accumulazione e alle conseguenti, disuguaglianze sociali, a loro volta motori dello sfruttamento delle risorse. E mi riferisco, tra le tanti tesi sull’argomento, alle analisi di Piketty, in merito alla giustificazione morale dei risarcimenti agli schiavisti (incredibilmente non agli schiavi), a partire dal 1800, alla conseguente formazione del debito pubblico di Stati colonizzati, obbligati a risarcire in rate insostenibili gli Stati colonizzatori per tale risarcimento, impedendo loro uno sviluppo economico, sociale e culturale; oppure in merito alla giustificazione del divieto alla tassazione progressiva fino alla prima guerra mondiale che ha prodotto una concentrazione del capitale in percentuali persino peggiori a quelle pre-rivoluzione francese; oppure in merito alla formazione del debito a seguito della politica monetaria con conseguenze nella svalorizzazione delle materie prime fornite dai paesi colonizzati.
Giustificazioni morali di supporto alla sacralizzazione dell’ideologia proprietarista, basata sulla paura di uno stravolgimento del mercato delle proprietà acquisite, e quindi alla solita paura del caos, che ha tanto influito nell’accettazione dei rapporti di dominio e sottomissione tra Stati e tra categorie sociali.
E questi non sono riferimenti storici ad un mondo antico, scomparso, ma riguardano la base su cui è stato costruito il boom economico occidentale, a cui tanti pensano come il “mondo normale” a cui tornare.
Ma mettere al centro la relazione, invece dell’entità/unità singola e padrona di sé stessa e delle sue “proprietà”, ha effetti nel prendersi cura dell’ambiente “non umano”, seguendo un orientamento morale indipendente e non derivato. Intendendo, con questo, che i requisiti etico morali del rapporto con l’ambiente non sono solo un di cui, di altri requisiti morali da rispettare, come quelli relativi agli effetti negativi dello sfruttamento delle risorse sulla stessa produzione ed economia dell’uomo, o quelli relativi agli effetti diretti e immediati sulla salute dell’uomo.
Etica indipendente e non derivata significa autonoma e specifica, ma, però, collegata da un quadro complessivo caratterizzato da principi comuni, che orientano alla responsabilizzazione e al prendersi cura di tutti i tipi di relazioni.
In questo senso, in una visione in cui al centro ci sia la relazione, tutti i beni ambientali sono comuni e non solo quelli residuali rispetto a quelli privatizzati. Cambia il nome del gestore o il custode fiduciario (il proprietario), ma non la responsabilità.
E prendersi cura del bene ambientale con cui sei in relazione anche come custode e gestore, significa contenere lo sfruttamento delle risorse, che, a sua volta promuove la cura della relazione con l’altro, umano, favorendo la lotta alla disuguaglianza. Sempre che l’altro della relazione non sia considerato strumento, ma fine.
Etica e comunicazione
Prendersi cura della relazione tra umani significa anche prestare attenzione alle tante occasioni di strumentalizzazione dell’altro, che non si nascondono solo nell’”oggetto della comunicazione”, ma anche nelle stesse modalità, quando diventa, come molto spesso accade, manipolazione seduttiva (comunicare per convincere, cioè per condurre a sé, per far acquistare un prodotto, per ottenere il voto), limitando così l’esercizio di un autonomo pensiero critico.
Sappiamo, ad esempio, il ruolo così importante della comunicazione politica al punto da non distinguere più la comunicazione con il contenuto. Ma non è la politica che si è fatta più manipolatrice, appropriandosi degli strumenti di marketing, ma è il marketing e i big data, che hanno invaso la politica, quando, per marketing, intendiamo la scelta dei canali e delle modalità ottimali di comunicazione delle proposte, adattate alle esigenze di ogni cliente o cittadino.
Se così è, i comportamenti “politici” amorali sono facilitati dalla manipolazione delle volontà, attraverso tecniche che: a) non permettano una razionale analisi delle motivazioni che sostengono una proposta, b) utilizzano strumentalmente metafore e parole che possano sedurre, cioè «condurre a sé» le persone; c) determinano ritmi e modalità di comunicazione che forzano, confondono, convincono invadendo, invece di ascoltare, accogliere e comprendere.
Il modo per far emergere comportamenti morali sarebbe allora quello di dare delle regole alla gestione delle relazioni e della comunicazione delle informazioni che è parte centrale di una relazione. Nell’era del digitale, queste regole sono parte della cosiddetta infrastruttura etica (Luciano Floridi).
In altre parole, la presunta moralità delle intenzioni di chi “comunica” (il fine) non è sufficiente per autoassolvere chi adotta nella comunicazione modalità manipolatorie e amorali (i mezzi). Soprattutto, oggi, nell’era digitale.
Ad aggravare la situazione, si aggiunga che ignoranza e soprattutto mancanza di un pensiero critico permettono proprio di non riconoscere l’amoralità nei comportamenti comunicativi, oppure inducono un’opposizione acritica generica e, alla fine dei conti, altrettanto manipolabile. Per non rimanere nel generico, occorre fare un esempio concreto del pensiero critico e della sua relazione con le politiche educative degli adulti
Dall’ultimo rapporto Ocse siamo all’ultimo posto in Europa per competenze, linguistiche e scientifiche. Ad esempio, solo uno su 15 sa distinguere un’opinione da un fatto. Ma se solo uno su 15 sa distinguere un’opinione da un fatto, la ricerca dell’affidabilità delle fonti da cui si ottengono informazioni diventa inutile. Oppure è importante solo per convincere l’altro attraverso una efficace comunicazione, ma non è utile per prendersi cura di come ci formiamo le nostre convinzioni.
Quindi, in questa situazione di non distinzione tra opinioni e fatti, in cui diminuiscono le motivazioni per formarsi un pensiero critico, si tende ad adottare atteggiamenti e posizioni istintive, che per la loro stessa natura si conformano al pensiero del gruppo con cui ci si è schierati. E, in fondo, anche questa è una sottile forma di condizionamento che non si riesce a combattere perché non lo si riconosce come tale.
Ma ci sono altri ambiti in cui non si riconosce la strumentalizzazione dell’altro. Ad esempio, nelle relazioni interne alle imprese che affermano di mettere al centro la persona nelle loro azioni e decisioni organizzative e gestionali.
Quando non si vedono le difficoltà nell’applicare davvero questo principio o la “si fa fin troppo facile”, mi viene il sospetto che la sua portata non sia davvero compresa e, quindi, sia di facciata. Ad esempio, spesso si motiva il personale, si fa del recruitment parlando di clima di squadra necessario per raggiungere obiettivi e dare un valore aggiunto. Ma se si vuole passare dai fini che giustificano i mezzi, ai mezzi che qualificano il fine, l’obiettivo di performance da raggiungere e il presunto valore aggiunto sociale del prodotto, costituiscono l’occasione, la situazione che permette di coltivare la qualità delle relazioni. Non il contrario: non è la maggiore efficacia nel raggiungere gli obiettivi di performance, ammesso che siano condivisi, il fattore che giustifica la ricerca di una buona relazione, di un buon clima.
Conclusione: una nuova alleanza tra etica laica e morale religiosa
Il progetto umano, che potrebbe diventare politico, per emergere come tale, non può che basarsi su una nuova narrazione da costruire e ricostruire, che è una caratteristica fondante della relazione tra viventi dotati di coscienza. Le narrazioni ci raccontano di noi, alimentano il nostro sé autobiografico, ricollocano la nostra identità nella storia del mondo e sostengono le nostre aspettative per il futuro: il progetto, appunto.
La narrazione liberale, ad esempio, diversamente dal passato ci ha consegnato il dubbio come fonte di libertà, ma ha comportato il relativismo, che se da un lato ci dà la sensazione di essere dentro un supermercato di qualsiasi narrazione, ci potrebbe restituire la libertà di pensare alla narrazione che più ci rappresenta e quindi al progetto umano e politico che vorremmo e che possiamo costruire insieme, prendendoci cura delle relazioni che ne sono la parte fondante.
Credo che il pensiero critico debba essere utilizzato per la formazione autonoma e genuina di un progetto umano e politico che orienti, coordini e integri, secondo principi etici e morali, e la cui condivisione sia un cantiere aperto.
Per una ricerca dei principi etici su cui fondare la nostra narrazione e il nostro progetto, emergono collegamenti, e, appunto relazioni, che una volta sarebbero stati visti in contrapposizione. Parlo di due ambiti di riflessione: religioso e laico.
Universalità della morale, custodi di beni donati o ereditati, responsabilità del creato, sembrano parole che saldano la dottrina sociale della Chiesa nel ruolo immanente della stessa, con un pensiero etico e laico sulla responsabilità della relazione che sta emergendo e che, se da un lato sembra più aperto, perché non richiede necessariamente il credere in uno specifico piano trascendente, dall’altro fatica nella pratica a diventare un discorso universalistico, proprio per i limiti della stessa genealogia della morale di origine evoluzionista e che, invece, è quello da sempre tentato dal discorso religioso.
(30 settembre 2020)
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