di Marco Biondi #Iolapensocosì twitter@gaiaitaliacom #Politica
Il fenomeno della globalizzazione dei mercati ha generato nel sistema produttivo dei vari Paesi reazioni differenti, molto diverse una dall’altra. Ogni Paese ha reagito come riteneva più appropriato e molte iniziative intraprese sono state, in qualche modo, coordinate, sia a livello datoriale che governativo. Nel nostro Paese la mia sensazione è che non ci si sia nemmeno posto il problema.
Non è un caso che molti Paesi, anche a noi vicini, siano stati in grado di controllare molto meglio di quanto fatto in Italia il tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, e la crescita economica.
Seppure le generalizzazioni siano da evitare, la percezione che ho avuto io, sia dall’interno del sistema produttivo che da semplice consumatore ed utilizzatore di servizi, è che la reazione predominante sia stata quella di compressione selvaggia dei costi, tagliando su qualsiasi tipologia di spesa non strumentale alla realizzazione dei prodotti o dei servizi oggetto dell’impresa. Il fenomeno si è ripercosso su ampia scala, partendo dalle multinazionali e coinvolgendo via via sia le medie aziende che le grandi imprese.
Se riavvolgiamo il nastro ed andiamo agli anni che hanno preceduto i grandi sconvolgimenti degli ultimi 15/20 anni, troviamo che moltissime imprese di successo puntavano sulla qualità dei loro servizi o dei loro prodotti, ognuna focalizzata sul suo segmento di mercato, ma con l’intento di costruire un brand, stimolare il senso di appartenenza all’impresa, far crescere giovani collaboratori, investendo sulla loro formazione, attirare dal mercato degli esperti che potessero anche, se non soprattutto, seguire il processo di crescita ed arricchimento del personale neo-assunto per generare una nuova classe dirigente.
Se analizziamo la situazione attuale della grandissima maggioranza delle imprese medio/grandi del nostro Paese, scopriamo che questi investimenti sono sostanzialmente spariti. I giovani che sono inseriti sono sempre più spesso stagisti/apprendisti, presi per ottenere lavoro a costi irrisori con lo scopo di sfruttarlo il più a lungo possibile. E, sempre più spesso, richiedendo prestazioni lavorative non associate a formazione ed investimento sul medio/lungo periodo. La logica conseguenza è che questi giovani, sottopagati, vengono a trovarsi senza prospettive di crescita e, appena possibile, cercano altro, lasciando il proprio posto al prossimo giovane da sfruttare.
Altro fenomeno che ha contribuito all’impoverimento delle capacità delle imprese è stato l’outsourcing. Esternalizzare funzioni, anche critiche, come ad esempio il servizio clienti, non ad esperti o a gente più brava e preparata, ma a chi praticasse le tariffe più convenienti.
L’esasperazione del contenimento del costo ha fatto sì che il servizio clienti venisse tramutato per molte aziende in un male necessario, anziché in una funzione mirata al mantenimento del Cliente, alla ricerca del miglioramento della sua soddisfazione, e ad un’azione proattiva, che potesse tramutare le richieste dei clienti in occasioni per avere opportunità di vendita e di upselling. Per contro, il fenomeno ha causato nelle società di outsourcing la necessità di “risparmiare” sul personale, adottando contratti “border line”, sottopagando gli operatori, e ricercando soluzioni sempre più automatizzate in sostituzione dell’intervento umano.
Questo fenomeno fa sì che sia sempre più raro riuscire a trovare una voce “reale” che risponda al servizio clienti di grandi aziende, incappando inevitabilmente in infinite alberature automatizzate (IVR). Per tacere del servizio prestato da operatori stranieri, delocalizzati a volte in Paesi extra comunitari, che si arrabattano a rispondere come riescono. Il tutto, sempre finalizzato a poter proporre il costo più basso, ha trasformato quelli che erano posti di lavoro decorosi in disoccupati o posti altamente precari, sottopagati, troppo spesso senza le tutele minime previste dai contratti di lavoro.
La mancanza di investimento sul brand e sullo spirito di appartenenza, inevitabilmente ha ricadute sulla qualità dei servizi o dei prodotti dell’impresa, e così le imprese escono perdenti nel momento in cui la competizione non si basa solo sul prezzo, ma sulla qualità e sulla affidabilità dei prodotti o dei servizi.
Come avevo detto in partenza, generalizzare è un errore da evitare. Ma appare evidente come molte aziende abbiano perso la loro competitività proprio a causa di scelte manageriali sbagliate.
La politica può fare qualcosa? Io credo che non solo possa, ma anzi debba fare qualcosa per attenuare queste distorsioni.
Per prima cosa, occorre rivedere interamente il meccanismo dell’alternanza scuola/lavoro, degli apprendistati, dei tirocini e degli stage. Queste forme devono essere studiate al fine di incentivare il giovane lavoratore a restare in azienda, ottenendo un inquadramento stabile e motivante. Le aziende devono essere soggette ad azioni di controllo molto rigide che accertino il rispetto dello spirito ispiratore di queste forme, che rappresentano un investimento da parte della comunità, basandosi principalmente su decontribuzioni ed agevolazioni fiscali.
Bisognerebbe poi rendere fiscalmente attraenti investimenti in formazione, per lo sviluppo di politiche fidelizzanti, su azioni mirate alla crescita professionale del personale addetto.
Serve poi adottare adeguati sistemi di controllo che impediscano alle multinazionali di speculare localmente sul lavoro dei giovani, per poi attrarli verso sedi estere, perdendo così il beneficio di avere investito su giovani che possano crescere e progredire economicamente nel nostro Paese.
Infine bisognerebbe agevolare sistemi di mobilità di giovani disoccupati residenti in aree disagiate, per consentire loro di trovare nelle aree economicamente più attive del Paese occupazioni qualificanti, anche se con scarso appeal economico, almeno per un periodo iniziale di formazione. Penso ad agevolazioni per affitti, aggregazione di gruppi di persone provenienti dalle stesse aree, incentivi per gli spostamenti, magari attraverso un coordinamento organizzativo delle Università.
Sembra banale ricordarlo, ma se si riuscisse a trattenere un maggior numero di giovani, agevoleremmo la creazione di nuovi nuclei famigliari in Italia, con tutto ciò che ne consegue.
Perché non sono solo i migliori cervelli che ci lasciano per andare in Paesi nei quali c’è maggiore facilità di investimento su di loro, sono anche giovani laureati, bravi, ma non necessariamente geni, che non trovano i presupposti per poter sperare in una crescita professionale ed economica nel nostro Paese ed ai quali viene a mancare il presupposto per impostare dei programmi di vita svincolati dal supporto e dal sostegno delle loro famiglie di provenienza. Risolvere questo problema genererebbe non solo crescita economica generale, ma rispetterebbe le naturali ambizioni della nostra popolazione più giovane.
Però, per favore, non veniteci a raccontare che gli extracomunitari portano via il lavoro ai nostri giovani, o che il problema si risolve col reddito di cittadinanza, così com’è concepito attualmente, perché queste sono le ennesime vergognose bugie utilizzate per catturare voti.
(7 gennaio 2020)
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