di Vittorio Lussana #Giustappunto twitter@gaiaitaliacom #Berlino1989
Tra poche settimane sarà il 30esimo anniversario del crollo del Muro di Berlino, avvenuto la sera del 9 novembre 1989. Una data indubbiamente storica, che i nostri giovani ‘millennials’ non comprendono nella sua importanza storica. E fa un po’ impressione osservare, oggi, questi nostri ragazzi – nati negli anni ’90 – non riuscire neanche a immaginare come fosse quel mondo e come si viveva prima che quell’evento stravolgesse le nostre vite. Alcuni di loro, li ho già in redazione. Ed è curioso notare questa loro mancanza di coscienza intorno alla ‘guerra fredda’. Per loro, Berlino è una città del nord Europa con molte possibilità occupazionali, appartamenti in affitto da dividere in quattro o sei persone, stipendi medio-alti anche per gli incarichi formativi più semplici, come servire patatine fritte in una paninoteca.
Il clima berlinese è indubbiamente rigido, soprattutto in inverno. Ma si tratta di un freddo sostenibile, poiché la sensazione di vivere circondati da un buon contesto sociale rende tutto meno gravoso, meno isterico, più confortante. Inoltre, questi primi due decenni degli anni duemila sono stati piuttosto caldi anche in Germania, con limpide primavere di sole ed estati persino torride, in qualche caso. Della vecchia Berlino, con le sue giornate di sole ‘timido’ anche ad agosto, non è rimasto quasi più nulla: chissà come mai…
Forse, siamo proprio noialtri, nati e cresciuti in quell’equilibrio del terrore, che dovremmo spiegare ai più giovani cosa significava quella città divisa in 4 settori, nonché prigioniera all’interno della Germania comunista. Non ci riusciamo perché la caduta di quel muro ha comportato un’improvvisa velocizzazione del mondo e dei rapporti, persino dei nostri comportamenti, abituandoci a un ‘mordi e fuggi’ in cui le novità, belle o brutte che siano, s’inseguono l’una con l’altra. Ecco: questa nostra vita oggi, caratterizzata da continui ‘alti’ e ‘bassi’, ai tempi del muro di Berlino non era minimamente concepibile. Tutto era immerso nel grigiore, in un equilibrio che rimaneva tipicamente ‘post bellico’. Tu capitavi lì per una partita di calcio o per un evento particolare e, talvolta, sentivi i berlinesi che si parlavano gridando da un palazzo all’altro, altre volte da una banchina all’altra della metropolitana. Qualche fedele funzionaria della Germania comunista riusciva, talvolta, a entrare a Berlino ovest per far visita a qualche parente e prendere sigarette, calze di nylon, un pantalone di stoffa più resistente, per recapitarli, a fine serata, dalla parte di là. Ma erano i giovani berlinesi a soffrire particolarmente quella divisione. La parte occidentale si sviluppò presto, con una velocità di trasformazione persino maggiore di quella del nostro ‘boom’ economico. Dunque, a Berlino ovest iniziarono feste e concerti rock e, nei primi anni ’70, cominciarono a spuntare anche le prime radio libere, dalle quali si diffondevano musiche di tutti i generi e tipi, anche i più trasgressivi e ‘metallici’. I ragazzi di Berlino est salivano sui tetti dei loro casermoni condominiali per vedere le luci notturne della parte occidentale, percependola come una ‘piovra’ dotata di tentacoli mentre nella Germania comunista erano vietati persino i film horror, ideologicamente giudicati come una perversa torsione della superstizione religiosa. Quel che mancava ai giovani di Berlino est era proprio ciò che c’era dall’altra parte. E ciò che avrebbero voluto i ragazzi che, viceversa, stavano dalla parte di qua – disciplina, cultura, possibilità di dedicarsi con passione a uno sport – era di là. In sostanza, il Muro di Berlino era destinato a cadere. Quel che non si sapeva esattamente era il quando e il come ciò sarebbe accaduto, con quali rischi, quali conseguenze o possibili rivolgimenti.
Dai racconti di Giovanni Lindo Ferretti, leader del Consorzio suonatori indipendenti, che registrarono alcuni loro album proprio a Berlino ovest, ne esce il ritratto di una città povera anche nella parte occidentale, meno ricca e colorata di Milano o di Bologna, poiché assai meno tranquilla. La tensione per le uccisioni di coloro che tentavano di fuggire da est era una notizia con una cadenza quasi precisa. Berlino appariva una città tranquilla. Ma quella sua tranquillità era fondata su una paura che ci teneva tutti quanti sulle spine. E che, tuttavia, favoriva comportamenti meno esagitati di quelli odierni, più controllati, meno incostanti da parte di tutti. La Berlino capitalista tentava di contenere le sue spire più ipnotiche e consumiste, mentre quella comunista cercava di non dimostrarsi eccessivamente repressiva, anche sotto il profilo psicologico. Ecco perché i giovani berlinesi dell’est, negli anni della contestazione, a loro volta contestavano i loro coetanei dell’ovest, come se si stessero ribellando in una forma puramente ‘carnevalesca’: “Non è in questo modo che il muro può essere abbattuto”, commentavano. Mentre i giovani berlinesi dell’ovest li accusavano di non ribellarsi più ‘rumorosamente’ contro il regime che li opprimeva: “Siete voi che dovreste farvi sentire”, replicavano. Insomma, le due Berlino si mancavano l’una con l’altra, anche nelle discussioni o nei litigi. Si amavano. E questo sentimento non solo lo si percepiva, ma si riverberava sul resto del mondo, dove chi difendeva il proprio modello di società cercava di non esporsi alle critiche di chi vedeva le cose in un altro modo.
Ancora oggi, siamo abituati a fare dei confronti molto pratici, materialistici, delle differenti condizioni economiche tra il ‘primo’ e il ‘secondo mondo’, dimenticando che quel paragone, allora, non si basava esclusivamente su tali aspetti: sotto il profilo ideologico e qualitativo, esistevano molte considerazioni a favore del regime comunista, tendente a inquadrare assai meglio, soprattutto sotto il profilo pedagogico, formativo ed educativo, i giovani. Certamente, si trattava di un modello, quello del socialismo ‘coattivo’, che noi, oggi, consideriamo assai ‘triste’, ‘grigio’, quasi ‘piatto’. Ed è vero: era proprio così. Ma nella sua ‘piattezza’, quel regime riusciva a tirar fuori le qualità migliori dai propri ragazzi, insegnando loro a essere metodici nel proprio impegno quotidiano: dei buoni e onesti lavoratori. Ecco da dove discendeva il mito di Aleksej Stachanov, l’operaio che riuscì a raddoppiare l’estrazione di carbone per ben 14 volte durante il suo turno di lavoro, trasformato in un eroe e in un’icona del mondo socialista. Non si pensi, guardando indietro a quegli anni, solamente a noi occidentali ben vestiti e a un est europeo triste e noioso: quel divario era meno pronunciato di quanto si pensi. E anche le società socialiste hanno vissuto periodi di felicità collettiva, nelle loro società. Quel che ci si prefiggeva come obiettivo di lungo periodo, in molti casi lo si raggiungeva. Per esempio, quello di vincere una medaglia olimpica in una specialità sportiva.
Anche se non si trattava di una ragazzina berlinese, bensì romena, non possiamo dimenticare quella notte di fine estate del 1976 in cui Nadia Comaneci riuscì a fermare il mondo intero con le sue performances di ginnastica artistica assolutamente perfette: quattro dieci in una notte. Il tabellone olimpico, predisposto dai giudici canadesi, il ‘10’ neanche lo prevedeva come voto: arrivava a 9,99. E per far capire al mondo che quella ragazzina aveva tolto il fiato a tutti quanti, digitava la valutazione: 1,00. Sembrava, cioè, che quella giovanissima atleta della Romania avesse ottenuto un voto bassissimo, mentre invece era sul tetto del mondo.
Nadia Comaneci non aveva danzato solamente su una sbarra, ma sul ciglio di quell’assurdo equilibrio basato sul terrore. Un incubo perenne, che quella ragazzina era riuscita a esorcizzare, a deridere, quasi a prendere in giro, danzando sull’orlo di un baratro senza fine.
(19 ottobre 2019)
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