di Vittorio Lussana #Giustappunto twitter@gaiaitaliacom #Politica
Uno dei nostri problemi più immediati è quello di una cattiva gestione di enti e servizi che rendono l’Italia, agli occhi del mondo, una vera e propria ‘barzelletta’. La funzione amministrativa, nel nostro Paese, viene svolta tramite regole vecchie e rigidità a cui si accompagnano improvvisazioni e veri e propri sprechi. Molti esempi negativi di mal funzionamento e di cattiva gestione sono sotto ai nostri occhi. Il processo di rinnovamento che ha impegnato la pubblica amministrazione in questi ultimi 20 anni si è caratterizzato per una cattiva ‘aziendalizzazione’ dei diversi soggetti interessati. In particolare, attraverso una separazione tra poteri di indirizzo e poteri di gestione, che ha sostanzialmente mancato proprio quegli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità che si erano proposti. Tramite la misurazione dei risultati nella gestione degli enti pubblici locali, sia in sede di programmazione, sia di monitoraggio – nonché mediante la loro rendicontazione – ci si potrebbe rendere conto di come determinate conoscenze servissero non solo a soggetti terzi, o alla semplice gestione amministrativa, ma soprattutto alle diverse articolazioni della società civile e dei cittadini. La logica economico-aziendale all’interno della quale ci si era mossi non è stata quella di nuove forme di organizzazione basate su ‘team’ o squadre di lavoro più efficienti, ma si è ricollegata direttamente a una riflessione ben nota: quella che teorizza una sostanziale assenza del sistema di mercato, il quale impone, invece, forme diverse di competizione all’interno dei distinti enti amministrativi, fra i diversi responsabili della gestione e tra gli enti stessi, sulla base di un sistema informativo che avrebbe dovuto fornire concrete e confrontabili conoscenze in direzione dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità. In base a tali assunti, il controllo sociale che si sarebbe dovuto determinare doveva sostituire, in un certo senso, il mercato. In particolar modo, sotto il profilo della creazione di condizioni alternative di competitività. Ebbene, tutto questo non si è mai realizzato. Un colpevole ricorso a discutibili società di gestione esterna di molti servizi, insieme ai consueti vizi del nostro tessuto amministrativo, hanno finito col portare il sistema nel suo complesso all’orlo del collasso, senza fargli raggiungere quegli obiettivi di innovazione e di efficienza da tempo auspicati. Comprendiamo come risulti assai difficile riuscire a far funzionare una macchina amministrativa assai complessa, come quella composta dalle diverse articolazioni dello Stato. Tuttavia, bisogna anche dirsi in faccia le cose come stanno: la subdola mentalità che concepisce la funzione amministrativa non come un mezzo per ottenere finalità pubbliche, ma come semplice fine per l’occupazione di posizioni di rilievo, o per la sponsorizzazione di determinati soggetti privati, ha sostanzialmente reiterato vecchi vizi clientelari, generando altresì una strana forma di economia basata su amicizie e relazioni, ‘furbetti’ e ‘palazzinari’ che imperversano, ancora oggi, nella corsa ad aggiudicarsi i più ‘appetitosi’ appalti pubblici. Ogni antico valore di servizio da offrire alla collettività, ogni ideale di seria lealtà istituzionale, è crollato definitivamente. Ma non era proprio questo ciò che doveva fare il ‘Governo del cambiamento’? Non doveva essere, quello ‘pentaleghista’, l’esecutivo che doveva liberarci dalla partitocrazia e dall’iperpoliticizzazione? Proprio di questi tempi, ci ritroviamo esposti a una nuovo ciclo recessivo dal carattere esogeno, che imporrebbe al nostro ‘sistema–Paese’ una forte stimolazione pubblica, al fine di incentivare investimenti strutturali. Non siamo nei guai, come molti analisti economici osservano, ma non siamo nemmeno nella condizione di poter approfittare della situazione, a causa della gravissima arretratezza e inefficienza della nostra ‘macchina burocratica’. Siamo sostanzialmente immobilizzati dal nostro enorme debito pubblico, che priva gli enti locali dalla possibilità di compiere quelle funzioni di stimolazione e d’intervento necessarie affinché il tessuto economico reagisca a una scarsa crescita e a una stagnazione angosciante. L’apparato della pubblica amministrazione rimane inefficiente e scarsamente innovativo, lento a recepire le richieste che provengono dall’esterno. Mentre la funzione politica di indirizzo stimola poco e male l’iniziativa privata a cimentarsi in iniziative coraggiose, in grado di generare nuove forme di occupazione tese a fornire risposte innovative ai bisogni della collettività. Il Paese, in buona sostanza, sotto il profilo della modernizzazione si muove troppo lentamente e con costi troppo alti, tramite i consueti clientelismi, le solite relazioni e stucchevoli ‘marchette’ tra istituzioni e imprese. La fotografia che ne esce è impietosa: una macchina ‘ingessata’, che non solo non tutela più nessuno, ma che non è neanche più in grado di garantire veramente alcunché. La privatizzazione di molti enti municipalizzati è stata eseguita con risultati opinabili: lo Stato doveva diventare più ‘snello’ e svolgere una funzione di coordinamento e di controllo nel nome e all’interno di un’etica pubblica, la quale, tuttavia, si è rivelata una misteriosa scala di valori e di priorità proprio da parte di chi era stato chiamato a operare i mutamenti richiesti dalla cittadinanza. I tempi per ogni risposta concreta, da fornire alla domanda di maggior efficienza, rimangono disastrosi. E ciò a causa sia di una sostanziale rigidità burocratica, sia di una ‘casareccia’ mescolanza tra interesse pubblico e quello privato. Non c’è nulla da fare: il nostro rimane un Paese ‘arlecchinesco’ e confusionario in tutto ciò a cui tenta di porre mano. E tralasciamo il consueto elenco di ruberie e malversazioni, anche per non togliere a nessuno la voglia di continuare a vivere in un Paese così malmesso. Vogliamo affrontare veramente il tema della gestione degli enti locali? Ebbene, i casi di vera e propria vessazione della cittadinanza sono sotto gli occhi di tutti. Per esempio, quello degli autovelox appostati nascostamente a mero scopo di lucro da parte di molti comuni, i quali dovrebbero, invece, utilizzare i fondi raccolti per un miglioramento dei servizi di mobilità, viabilità e trasporto e che, al contrario, finiscono col finanziare discutibili iniziative ‘strapaese’. Per non parlare della moltiplicazione delle innumerevoli forme di tassazione indiretta, dettate naturalmente dalle emergenze finanziarie dei diversi apparati, locali, regionali o centrali essi siano. Tutto ciò non può che generare degrado e sfiducia. I problemi che si stanno ponendo innanzi a noi, cittadini italiani, non sono certamente di semplice soluzione, poiché discendono da questioni incancrenitesi in un Paese che ha sostanzialmente rinunciato alla politica e che, ancora oggi, stenta a rendersi conto di essere finito direttamente dalla ‘padella’ nella ‘brace’. Ma un Paese composto di caste, ‘controcaste’, conventicole, famiglie e famigliole, mafie e mafiette, è effettivamente in grado di cogliere le possibilità migliori da una futura mutazione in senso autonomista di alcune regioni? La verità è che buona parte di quelle ‘grandi riforme’ che avremmo dovuto fare – e di cui più nessuno, oggi, parla – andavano fatte. Magari inserendole in un quadro giuridico, etico e civile ben preciso, al fine di porre un freno a quel processo di ‘deistituzionalizzazione’ che rischia di aprire la porta a una definitiva deriva utilitaristica e privatista della nazione.
(7 giugno 2019)
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