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Facciamo riferimento, in questa che vuole essere una specie di lettera ai nostri amici e lettori, ad un episodio sgradevole capitato ad un nostro collaboratore che stimiamo enormemente che è anche – non casualmente – un amico al quale vogliamo bene. In un episodio di rabbia di fronte all’orrore di uno stupro perpetrato in un luogo pubblico e contro il quale nessuno è intervenuto in difesa della vittima – riassumendo velocemente – e gli interventi sono stati tardivi ha scritto un post “di pancia” dove ha esagerato e successivamente chiesto scusa per l’errore.
Gli amici difendono gli amici pubblicamente. Sempre. In privato li prendono anche a calci nel sedere, ma pubblicamente gli amici si difendono. Perché se non si difende un amico non si è “amico”. Poi l’amicizia pretende, e la si onora facendolo, che si prenda a schiaffoni verbali l’amico che sbaglia. Cosa che non ci siamo mai astenuti dal fare e che avremmo voluto altri che credevamo amici avessero fatto con noi.
Il nostro collaboratore, e qui torniamo in veste di editori, ha sbagliato. Lo ha scritto pubblicamente di avere sbagliato, così come pubblico è stato il suo “post sbagliato”. Non l’avrebbero fatto in molti. Credeteci. Lo sappiamo. perché questo è il nostro mestiere. E in difesa della libertà di espressione riteniamo di poter affermare che “libertà di espressione significa anche libertà di sbagliare e di chiedere scusa” e quindi assumersi personalmente ogni responsabilità correlata a quelle libertà di cui godiamo. Questo quotidiano non si è mai tirato indietro e i suoi collaboratori nemmeno. Questa casa editrice non ha mai censurato una sola parola fosse contenuta negli articoli ricevuti o nei libri pubblicati o negli spettacoli prodotti. Ha fatto notare con tatto quando l’articolo conteneva frasi offensive che l’autore ha cambiato. Non noi. Dunque anche in questo caso, abbiamo ritenuto che fosse tra nostre prerogative prenderci la libertà di pubblicare questo articolo dopo un paio di tweet sgradevoli che pubblichiamo di seguito, opportunamente “anonimizzati”. I loro autori sono già stati bloccati in nome della “pulizia” che vogliamo abbia il nostro account twitter.
Se il tenore con il quale si chiede conto, si chiede rispetto, ad un professionista, del proprio lavoro è questo, come si pensa di poter essere difendibili? Se ad una reazione “errata” corrisponde una reazione opposta ugualmente sbagliato, stiamo andando nella direzione della giustizia? Se utilizziamo a sproposito parole corrette (sedicente, ad esempio, non si può dire di un giornalista iscritto all’albo, ma è solo un esempio) in nome di cosa stiamo scrivendo? Della nostra ignoranza, della nostra panza, o di qualcos’altro? Siamo sicuri che tutti noi saremmo stati capaci di scusarci nello stesso modo e con lo stesso “mezzo pubblico”?
Tutto questo incazzereccio godimento dell’offesa ricevuta per il gusto di renderla, ricorda molto i chiacchiericci cattivissimi di certi cortili (“non fare tanto pollaio!”, si diceva un tempo). E’ cambiato il cortile, che è diventato una sterminata aia senza controllo, ma continuiamo a comportarci come galline. E questo, va detto, fa un po’ orrore e stride con quel bisogno di giustizia e correttezza [sic] che millantiamo per fare bella figura dentro un pollaio virtuale. I santi e i puri, per favore, passino oltre. Noi siamo comuni mortali. Fallaci. Che non è solo un cognome è anche un aggettivo.
Con stima e gratitudine nei confronti di tutte e tutti voi, collaboratori, collaboratrici, lettrici, lettori, amici ed amiche. Non necessariamente in quest’ordine.
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(9 marzo 2019)
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