di Vittorio Lussana #Giustappunto twitter@gaiaitaliacom #Politica
In questi giorni, l’Ordine dei giornalisti della Campania ha deferito Luigi Di Maio, iscritto all’elenco dei pubblicisti, presso il Consiglio disciplinare dell’Ordine medesimo, convocandolo d’urgenza al fine di render conto delle proprie recenti dichiarazioni espresse nei confronti dell’intera categoria professionale. Come al solito, verranno sollevate delle critiche a tale decisione, assunta dal presidente dell’Odg campano, Ottavio Lucarelli. Tuttavia, tale convocazione in realtà è un atto dovuto, poiché si è trattato di un attacco ‘generalista’, privo di ogni distinzione e riguardo nei confronti di un’intera categoria professionale presa nel suo complesso. Siccome questo ‘signorino’ non conosce un ‘tubo’ di come sia veramente la vita concreta di molti giornalisti, allora si è messo a ‘sparare sentenze’ in generale, esattamente come quando risponde nel merito di molte questioni politiche che dovrebbe, invece, conoscere nello specifico. Insomma, parlano ‘in generale’ questi qui. E lo fanno spesso e volentieri, senza precisare che, sotto il profilo comunicazionale, s’iscrivono pienamente alla categoria dei Partiti ‘generalisti’ della seconda Repubblica, come per esempio Forza Italia. Tale superficialità, volenti o nolenti, li classifica anche sotto un’altra antica categoria della politica: quella dei Partiti ‘massimalisti’. I massimalisti sono coloro che assumono come presupposto di principio della propria analisi, l’obiettivo di massima che essi intendono realizzare. In pratica, quando un massimalista vuole la rivoluzione, egli la presuppone come punto di partenza, al fine di ribaltare ogni questione all’interno di un problema che, invece, risulta quasi sempre peculiare. Raramente, nei nostri dibattiti politici discutiamo delle diverse forme di Governo o di massimi sistemi, no? Non siamo usciti ieri da un referendum per la Monarchia o la Repubblica. Al contrario, siamo nella condizione esattamente opposta: proveniamo da un referendum che ha sostanzialmente confermato il nostro ordinamento costituzionale basato su una democrazia parlamentare. Eppure, in ogni cosa i ‘penta-leghisti’ partono ‘dall’alto’, come nella migliori tradizioni rivoluzionarie. Ma dall’alto di cosa, se al Governo ci sono arrivati soltanto da pochi mesi e hanno ancora tutto da fare? In base a cosa nasce questa loro ‘baldanza’ nel giudicare il prossimo o altre categorie professionali ben distinte dalla loro? Qual è la ‘pezza d’appoggio’? Cos’hanno mai realizzato sino a oggi? Hanno vinto le elezioni? Certamente. Ma in politica non si è sempre e perennemente in campagna elettorale. Prendiamo, per fare un esempio, il senatore leghista Simone Pillon, il quale, al fine di ottenere una ‘perfetta bigenitorialità’ degli ‘affidi condivisi’ nelle cause di divorzio, vorrebbe imporla per legge. Si tratta dello stesso identico metodo a lungo utilizzato da Benito Mussolini, che infatti era un socialista rivoluzionario, nonché dalle democrazie socialiste dell’ex impero sovietico. In buona sostanza, le forze che sono alla guida, in questo momento, del Paese e che definiscono l’esecutivo da esse stesse formato “un Governo del cambiamento” stanno utilizzando una grammatica e una metodologia che risale, nel caso della Lega, ai primi del ‘900, mentre in quello dei grillini a 70 anni fa, durante i lunghissimi decenni della ‘guerra fredda’. Questo dovrebbe essere il primo segnale che non si tratta affatto di un ‘Governo del cambiamento’.
Eppure, la contraddizione è stata sottoposta agli italiani con autentica faccia di ‘tolla’, nonostante si dovesse comprendere sin dal principio che si trattava di forze che hanno, come loro principale preoccupazione comunicativa, quella di utilizzare la propria superficialità generalista, probabilmente al fine di nascondere la loro scarsa esperienza. Indicare sempre e regolarmente, degli obiettivi di massima, non significa affatto spiegare attraverso quali percorsi questi stessi obiettivi si possano raggiungere. Ecco il vero motivo per cui ci ritroviamo, ancora una volta, innanzi a delle promesse elettorali che risulteranno rispettate solo in parte: altro che colpa di Tizio, di Caio o di Sempronio. Talvolta, quando incontro esponenti politici di questo tipo – mi riferisco soprattutto a Di Maio e a Di Battista – quasi sempre mi viene il sospetto che si tratti di persone che ne hanno prese ‘troppo poche’ dai propri genitori durante la propria infanzia. Ma anche porsi scherzosamente questo dilemma è un altro modo per confermare la totale irresponsabilità degli italiani nell’aver voluto la formazione di questo Governo e nell’aver votato questi due Partiti. E infatti, a questo punto del ragionamento puntuale giunge la domanda: “Invece di comprendere dove le sinistre hanno sbagliato, perché si continua a dare la colpa ai cittadini per essersi espressi con il loro voto…”? Semplicemente, perché le cose stanno esattamente così: molti italiani si sono sbagliati. Sono cose che capitano, in politica. E sono cose già capitate. Gli italiani sbagliarono a fidarsi di Mussolini, o per lo meno sbagliarono a fidarsene troppo a lungo; in seguito, sbagliarono nel sostenere la Democrazia cristiana per 50 anni, anche in questo caso per un tempo eccessivo; e dopo ancora, sbagliarono nel votare Berlusconi all’incirca per vent’anni, ovvero troppo a lungo anche in questo caso; infine, gli italiani hanno sbagliato anche questa volta, poiché hanno affidato i destini del Paese a forze superficiali e irresponsabili. Ma allora, cosa dovevano fare gli italiani, per evitare di sbagliare? Semplicemente, nulla: in politica, gli elettori vengono spesso indotti, o si ritrovano ‘costretti’, a sbagliare. Il problema degli italiani non è che votano ‘male’: la vera questione è che sbagliano troppo a lungo, che indugiano nell’errore, allungando a dismisura la ‘lunghezza temporale’ di ogni ciclo politico. Una ciclicità la quale, in una società divenuta dinamica, oggi dura assai meno tempo rispetto a prima. Nelle società del terzo millennio non sono crollate solamente le ideologie: si sono anche velocizzati i tempi di ricambio, i quali non dovrebbero mai superare ‘archi temporali’ superiori al decennio, esattamente come nelle altre democrazie occidentali. Quando si afferma che gli italiani hanno sbagliato a votare, non s’ìntende affatto colpevolizzarli di qualcosa, perché se mettessimo in fila tutte le ‘cantonate’ che essi hanno preso lungo la loro Storia, ci sarebbe da scaraventarli tutti quanti in mare. Quando si dice che gli italiani sbagliano, s’intende affermare un’altra cosa, persino peggiore, se si va a ben vedere: si sta cioè sottolineando che le alleanze, le alternative e gli schieramenti politici posti al vaglio del corpo elettorale non sono quelli ‘giusti’, rispondenti alla realtà. L’errore denunciato non è sul versante della ‘domanda’ di cambiamento politico, bensì su quello dell’offerta, che quasi mai corrisponde ai ‘desiderata’ dei cittadini, né all’attualità dei problemi da affrontare concretamente. E’ il nostro sistema democratico a non essere messo a punto, non i cittadini. Se gli italiani avessero di fronte una sinistra riformista composta da un ceto dirigente di persone valide e competenti, probabilmente non voterebbero in massa per il Movimento 5 Stelle; e se gli elettori che si considerano moderati avessero a che fare con un vero Partito conservatore, probabilmente non avrebbero mai abbandonato la Democrazia cristiana per andare a sostenere la Lega di Matteo Salvini.
E’ il grado di autenticità e di credibilità politica a fare, oggi, la differenza. E prima si comprende questo elemento, meglio sarà per tutti.
(15 novembre 2018)
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