di Daniele Santi #deificazione twitter@gaiaitaliacom #giornalismo
C’era una volta un uomo che ebbe problemi con un articolo da lui scritto che poteva costargli una condanna, forse il carcere, e che venne “salvato” dall’allora PSI e da quello che poi divenne uno dei tanti nemici da distruggere che l’uomo si sarebbe inventato nel corso della sua troppo lunga carriera giornalistica. Di quell’uomo il libro “Craxi, una vita un’era politica” di Massimo Pini edito da Mondadori scrive:
… Ce la fece pure Eugenio Scalfari, il quale era candidato a Milano e a Torino per le insistenze di Giacomo mancini e dello stesso Nenni. Scalfari e Pino Iannuzzi erano stati condannati per diffamazione, a seguito di una denuncia presentata contro di loro dal generale De Lorenzo per la ricostruzione sul settimanale “l’Espresso”, nel 1967, del “tintinnar di sciabole” che nel luglio del 1964 aveva segnato il passaggio dal prima al secondo gabinerro Moro: si trattava quindi di salvarli dal carcere (…) Eugenio Scalfari era stato candidato nel 1953 per i liberali di Malagodi; ora si presentava amico di Giolitti, e si portava dietro come assistente un certo Peppino Turani che, da direttore del “Cittadino” di Voghera, si era dichiarato addirittura operaista. <<E’ un geniaccio, con un carattere fragile, instabile>>: così Craxi giudicava allora Scalfari. <<Se oltre ai salotti avesse frequentato anche qualche sezione di partito, se avesse alternato i colloqui coi finanziari a qualche incontro con gli operai, be’, direi che non gli avrebbe fatto male.>> Comunque Scalfari fu eletto, per ultimo, a Milano e anche a Torino, e decise di optare per Milano ( “Craxi, una vita un’era politica” di Massimo Pini edito da Mondadori pagg. 59 e 60).
L’odio di Eugenio Scalfari nei confronti di bettino Craxi è noto. La Repubblica fu uno dei quotidiani che più affondarono la lama nelle debolezze del segretario del PSI, presidente del Consiglio dal piglio autoritario, ma decisamente autorevole, che fece valere non soltanto il suo carattere, ma anche la forza delle sue idee, e non stiamo scrivendo che Scalfari ai tempi non avesse ragione. Chi ricorda Tangentopoli ricorderà il livore che Scalfari inoculava come veleno in ogni articolo del quotidiano di cui è stato fondatore, e del quale era allora direttore, convinto che da giornalista avrebbe potuto essere il salvatore della patria quando per salvare sé stesso aveva avuto bisogno del PSI sulla tomba del quale ora sputava. Eugenio Scalfari, che ha combattuto dalle colonne del giornale che ha fondato battaglie sacrosante, non ha perso l’abitudine di scagliarsi contro coloro che, in qualche modo, non riconoscono le regali opinioni e, come ogni buon ateo, rifiutano di vederne la divina forma ed il suo essersi trasformato da giornalista di grido, a nume del giornalismo infine a divinità. Purtroppo la divina forma scalfariana gli ha tolto la memoria, e questo è sempre male, perché non si può gridare alle candidatura di convenienza degli altri dimenticandosi delle proprie.
Sulla stessa triste strada sembra incanalarsi la carriera giornalistica e televisiva di un altro immortale dell’informazione, dio di ogni verità e giustizia, soprattutto di quelle che più gli fanno comodo, parliamo di Marco Travaglio recentemente assurto a cronache immortali grazie al suo odio manifesto contro Maria Elena Boschi ed ai travagli, scusate, travasi di bile maschilista accadutigli durante più di un confronto televisivo. Anche il pallido Travaglio, sempre senza argomenti, ma che pensa di essere dotato di un’ironia sferzante grazie alla quale salvarsi il culo in ogni occasione, appartiene alla sempre più affollata compagine di giornalisti deificati da loro stessi o da ciò che loro stessi pensano di essere, meritarsi, da ciò che dicono di essere portatori, da ciò che scrivono, parlano, sparlano, raccontano. Dai loro deliri. Scalfari e Travaglio sono in ottima compagnia: con loro Luca Telese, David Parenzo, Oscar Giannino, Giuseppe Cruciani. Ma questi ultimi, rispetto a Scalfari e Travaglio conoscono il limite del buon gusto e del loro mestiere e non ritengono di meritare di salire il gradino che separa gli umani dagli esseri superiori. Loro fanno il loro mestiere, e tutti lo fanno assai bene, al di là di quale possa essere l’opinione di chi li ascolta e legge.
Scalfari e Travaglio no. Essi hanno deciso che per il semplice fatto di esistere e di avere sposato il giornalismo sono investiti del diritto-dovere di incidere nella vita politica ed economica del paese, ecco quindi che la loro idea deve essere legge e se non diventa legge gli oppositori vanno puniti con qualsiasi mezzo, dalla carta stampata al web alla televisione, e con qualsiasi invenzione dialettica o lessicale sia concessa. Nel caso di Travaglio l’uomo che non crede nemmeno lui a ciò che dice, che è dio e poverini voi se non avete fede, che ha la verità in bocca perché sennò cosa lo pagano a fare quando va in televisione, si spinge anche più in là del rischio calcolato, mentre Scalfari appartiene ad un’altra generazione: quella che conosce il limite della buona creanza, cosa che i 50enni giovanilisti alla Travaglio non conoscono più.
E dopo l’avvento di Grillology quel limite hanno rinnegato.
Ecco quindi riuniti due esempi di diversa estrazione, ma dai medesimi obbiettivi falliti. Da un lato Eugenio Scalfari, politico di nessuna importanza, eletto per salvargli le natiche, il cui contributo alla politica non verrà certamente ricordato con esibizioni giubilanti di nudità per le vie d’Italia e dall’altro Marco Travaglio, già allievo di Indro Montanelli (che se fosse in vita lo prenderebbe a sberle), fondatore di un quotidiano di nessunissima consistenza che per reggersi in piedi deve allearsi con il contestatore di turno: era Santoro, ora è Cairo, e farsi portavoce di una politica – prima era il no a tutto ora è Grillology, ma poco importa – e manifestare, in ogni occasioni televisive preda di un conformismo mediatico che tale dev’essere per essere scambiato per protesta ed anticonformismo da supermercato, il suo profondo odio verso quel potere al quale ambisce e che, a forza di crearsi nemici, non avrà mai. Proprio come Eugenio Scalfari, assiduo frequentatore dei salotti buoni che fanno tanto Italia, poi messo da parte anche da loro perché il radicalismo chic prima o poi rompe i coglioni anche a chi lo pratica.
Entrambi ambivano ad un potere assoluto che non hanno conquistato, trovandosi a dover ricorrere ad una presunta immortalità alimentata dall’eterna ed aurea giustezza [sic] delle proprie idee.
E noi comuni ed illetterati mortali qui a criticarli come se fossero uomini.
(16 dicembre 2017)
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