di E.T. #1dicembre twitter@iiiiiTiiiii
Arrivò Massimo e mi disse, Hai saputo che è morto Pier Vittorio Tondelli? e sottolineò la notizia con l’espressione di chi suggeriva “sai anche di cosa?”, come se fosse importante. Iniziava in quel momento, era il 1991, il mio lungo confrontarmi con una malattia tremenda. Una malattia che significava vedere improvvisamente scomparire amici che amavi e persone che conoscevi. Incontrare pallori irreali. Figure fatte di macchie e colori chiari. E tanto dolore negli occhi. Sono gli sguardi che non dimenticherò mai. Sguardi persi, sperduti, allucinati, sofferenti, di giovani che si chiedevano il perché stesse succedendo a loro ciò che a loro stava succedendo. Un amico, che se ne andò in poco tempo, continuava a lasciare messaggi sulla mia segreteria telefonica chiedendomi di portargli cioccolatini. Lo facevo sempre, ogni giorno. Ed ogni volta che me lo chiedeva aggiungeva: Le guardie alla porta ti conoscono, ti fanno passare anche fuori orario. Perché alla porta dei reparti che curavano le vittime dell’HIV c’erano i poliziotti. Per via del traffico di droga, dicevano. Ho sempre avuto dubbi rispetto a quella spiegazione. Ce li ho ancora.
Franco aveva 37 anni ed una attività di successo. Era un bell’uomo che non aveva mai pronunciato la parola “gay” in vita sua. Non ci riusciva. Mi raccontò di essersi punto con un ago in un parco portando fuori il cane e quei maledetti tossici chissà cosa mi hanno attaccato, brutti bastardi che era il suo modo di dirmi mi sono contagiato. Feci finta di nulla. Una sera, a casa sua, vedemmo alla tivu un orrendo spot di sensibilizzazione, andava molto di moda quella parola lì ai tempi, nel quale i contagiati da HIV venivano rappresentati con un alone fluorescente mentre camminavano per la strada o in casa o al cesso o sotto la doccia o a letto. Che si poteva dire di fronte a tanta ignoranza? A tanta cattiveria? Soprattutto, cosa avremmo potuto fare?
Qualche giorno dopo venni convocato dal mio capo. Mi disse che la mia presenza nello staff radiofonico dove lavoravo al tempo, non era più necessaria perché il suo stato di salute mette in pericolo i suoi colleghi. Lo guardai come si guarda un demente: “Il mio stato di salute?”. Rispose: “Lei sa benissimo di cosa parlo”. Risposi a mia volta: “No. So benissimo con chi parlo. Con un fascista bastardo”. Gli tirai le penne in faccia. Andai nell’ufficio del direttore dei programmi e lo attaccai al muro. Poi me ne andai. L’ometto che si fregiava del titolo di direttore aveva riferito al capo di essere al corrente della mia sieropositività. Per farmi fuori. Riuscendoci. Anche di queste schifezze era fatta la paura ai tempi del dagli all’untore. Attraverso la paura si saldavano conti e si dispensavano punizioni. Non è cambiato granché. E’ l’orrenda pasta della quale gli esseri umani siam fatti. Per la cronaca, sono tra i fortunati che non hanno contratto l’HIV in un momento storico nel quale ci si contagiava senza nemmeno sapere che il virus esistesse.
Persi quasi tutti gli amici: tra loro donne, maschi eterosessuali, maschi omosessuali, coppie sposate, bambini. Ogni settimana un funerale diverso. Ne ricordo uno a Bologna. Terribile. Eravamo tutti uomini, a salutare il nostro amico. E tutti soli. Non c’erano madri. Non c’erano zie. Non c’erano amiche. Non c’era famiglia. Solo un senso di solitudine e di disperazione senza fine. Anche quello voleva dire morire per gli effetti dell’HIV. Le cronache però, quanto casualmente!, continuavano a riferire di categorie a rischio, che voleva dire omosessuali maschi e tossicodipendenti, proprio in quest’ordine. E anni di soprusi, vessazioni psicologiche, giudizi, di dagli agli untori con la parola profilattico vietata e nascosta e un polacco che predicava agli Africani che il profilattico era il male… Poi il miracolo dagli Stati Uniti, perché in Vaticano li raccontano, i miracoli, ma per farli occorrono soldi più che fede, e gli americani i soldi li hanno e li usano per farne altri. E’ il loro dio. Altro che pontefici… Il miracolo era un farmaco che bloccava la replicazione del virus. E poi l’evoluzione verso la cronicizzazione della malattia.
E quindi un oggi dove di HIV si parla solo il 1° dicembre grazie, come allora, a quella comunità che ha vissuto sulla sua pelle una vera e propria strage di innocenti, ammazzati quand’erano ancora in vita da istituzioni ferocemente moraliste, impreparate, bacchettone prima che dal virus. E da chiese compassionevoli solo nei restyling. Oggi l’HIV non esiste più e le persone con HIV nemmeno. Così è la percezione popolare. La comunità dei maschi che fanno sesso con maschi ha dimenticato il problema. E anche di proteggersi. Viviamo tutti in spazi virtuali dove possiamo dimenticarci chi siamo raccontando agli altri e a noi ciò che vorremmo essere. Dimentichiamo, nei nostri racconti, di essere umani. Proprio come fece il ministro della Sanità che approvò l’orrendo spot del 1991 o giù di lì. Ci incontriamo, andiamo a letto insieme troppo spesso senza proteggerci e ci salutiamo. Spesso senza vederci più. A meno che non sia su un social. Ché bloccato l’intruso risolto il problema. L’HIV è nulla in confronto all’orribile virus dell’indifferenza e dell’odio contro tutti che ha incenerito i cuori di un’umanità che a forza di gridare ha perso il senno. E il 1° dicembre siamo ancora qui. A raccontare di pericoli che nessuno vuole vedere più. Perché con una pillola si risolve tutto. E in fondo l’AIDS e l’HIV non sono mai esistiti…
Lo dicessero a Mauro, Franco, Fabrizio, Andrea, Stefano, Francesco, Luca, Gianluca, Luca, Marco, Marco, Tiziana, francesca, Rosa, Lucio, Luciano, Luca, Luca, Luca, Stefano, Giovanni, Giovanni, Michele, Paolo, Gianpaolo, Luca, Luca, Maurizio, Domiziano, Achille, Giovanna, Adriana, Antonello, Antonella, Fabio, Fabrizio, al piccolo Andrea…
(1 dicembre 2017)
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