di E.T., twitter@iiiiiTiiiii
Bobo Craxi, apprezzato sottosegretario agli Affari Esteri nel Governo Prodi ed esponente socialista che ha più volte dimostrato, in questi ultimi decenni, autorevolezza e coerenza politica, ha incontrato di recente il presidente della Generalitat della Catalogna, Carles Puigdemont. Un confronto che gli ha senz’altro dato modo di ‘tastare il polso’ della situazione, dopo il contestato referendum secessionista dello scorso 1° ottobre. Atterrato a Fiumicino da pochi giorni, abbiamo subito voluto rivolgergli alcune domande intorno a un ‘nervo scoperto’ della politica iberica ed europea: quella del mai sopito dualismo socio-economico tra Barcellona e Madrid.
Onorevole Craxi, la Catalogna ha fatto il grande ‘passo’ verso l’indipendenza, oppure si è tagliata le gambe, secondo lei?
“Penso che i dirigenti catalani abbiano estremizzato la loro battaglia indipendentista e, avendo fissato una propria ‘road map’, non abbiano calcolato alcune conseguenze che, allo stato, appaiono alquanto negative sul piano internazionale: a) non viene riconosciuto loro lo status desiderato sul piano interno; b) la società catalana è apparsa assai più divisa di quanto si è creduto; c) sul piano economico, le ripercussioni non si sono fatte attendere e l’esodo di più di 400 aziende, che all’interno di una logica di comunità economica non sarebbe mai avvenuto, ha fatto mancare il sostegno adeguato alla pur legittima aspirazione d’indipendenza”.
Tuttavia, le pulsioni indipendentiste catalane provengono da molto lontano: può chiarire ai nostri lettori le dinamiche interne della politica di Barcellona?
“Da una parte, certamente vi è la Storia, la quale ha determinato condizioni di separazione o, addirittura, di estraneità della Catalogna dallo Stato Spagnolo; dall’altra, il processo di globalizzazione economica e la cornice continentale europea hanno esaltato e alimentato il riflusso delle identità nazionali sopite od oppresse. Nel caso spagnolo, lo sviluppo integrato delle comunità autonome ha messo sullo stesso piano tutte le regioni, compresi i Paesi Baschi e la Catalogna, che godevano di una loro vistosa peculiarità. Il rapporto virtuoso fra lo Stato centrale e i catalani si è inceppato, in verità, quando sciaguratamente fu ‘cassato’, da un’iniziativa politica del Partido popular di Aznar e Rajoy, lo ‘Statut’ di autonomia catalana, il quale avrebbe reso definitivo il rapporto d’integrazione nella comunità nazionale spagnola, pur riconoscendo alla Catalogna l’entità di nazione: un po’ come avviene per la Baviera in Germania. A tale errore politico sono poi seguiti anni di frustrazioni e un aumento esponenziale dei movimenti indipendentisti, che mai erano stati maggioranza nelle istituzioni autonome. Il resto è Storia: l’indipendentismo come ragione politica principale e un movimento trasversale, borghese e proletario, giunto ai confini della rottura traumatica che stiamo vedendo”.
Qual è il suo punto di vista sulla questione?
“Innanzitutto, metodologicamente ritengo che i problemi vadano fronteggiati prima che diventino cronici, quindi non più affrontabili con il solo approccio politico. Come abbiamo visto, addirittura lo Stato spagnolo intendeva impedire fisicamente il voto sull’indipendenza: un’azione che ha generato sconcerto ed è apparsa incomprensibile. In secondo luogo, il risorgere di tali questioni attiene anche alla difficoltà dell’Unione europea di suscitare, nel suo processo di aggregazione, un ‘afflato’ ideale talmente forte e convincente da ritenere superate tutte le divisioni identitarie che appartengono all’altro secolo. La crisi economica ha poi suscitato la speranza che una nuova ricerca d’identità politica e sociale possa essere la ‘via di fuga’ più idonea, come accaduto per la Gran Bretagna con la Brexit; il voto francese, a sua volta ci ha detto chiaramente quanto siano in crisi le forze politiche tradizionali; in Italia, infine, il quadro non è differente. Le grandi formazioni politiche europee, quella popolare e quella socialista, pagano un prezzo che personalmente considero fisiologico alla mutazione dei sistemi economici e alla libera circolazione di beni e informazioni. E non suscitano il rispetto di cui hanno sempre potuto contare. Il Partito popolare spagnolo, per esempio, è costretto a rifugiarsi in un nazionalismo ‘stantìo’ per rinsaldare le sue fila, mentre è proprio la sua ‘inazione’ riformista ciò che ha determinato questa grave crisi istituzionale”.
Lei ha recentemente incontrato il leader indipendentista Puigdemont: che impressioni ne ha tratto?
“E’ un uomo dalle convinzioni salde, che rappresenta, se non ho mal capito, l’aspirazione identitaria di una Catalogna rurale, non metropolitana, proiettata tuttavia verso l’Europa. Sul piano personale, me lo aspettavo molto più radicale nei suoi punti di vista: l’ho trovato, invece, un uomo ragionevole, non un ‘arruffapopoli’ come certi secessionisti di ‘casa nostra’. Una razionalità che ho visto confermata in quella dichiarazione ‘tattica’, certamente ambigua ma indubbiamente realista, che lo ha portato a una ‘frenata’ dell’ultimo minuto in parlamento. Di fronte alla pressione internazionale, sono in tanti quelli che hanno cercato di aprire gli occhi alla concretezza delle cose, al fine di fornire un’offerta di dialogo e di prospettiva concreta. Penso e spero che egli possa riconsiderare non le sue idee e i suoi obiettivi, ma il gradualismo attraverso il quale ottenerli. Ha tentato una forzatura. E tale forzatura non ha dato i risultati che lui si proponeva”.
Mariano Rajoy e il Pp – e prima di lui Zapatero e il Psoe – hanno disatteso le istanze catalane con politiche ambigue, affidando i loro “No” ai tribunali: dove stanno gli errori?
“La responsabilità maggiore risiede in Rajoy: il Psoe, proprio con Zapatero tentò la via dello Statuto di autonomia, non riuscendo nell’intento. Ora, il Psoe rilancia la riforma costituzionale e una forma rinnovata della Costituzione in senso federale, che potrebbe contemplare anche le aspirazioni catalane: un giusto compromesso, che mi sono permesso di suscitare all’attenzione del presidente Puigdemont una volta scemata l’adrenalina del moto insurrezionale. D’altronde, pensare di risolvere un problema politico affidandosi al potere giudiziario e a quello poliziesco è una strada abbastanza ‘inusuale’ per una democrazia occidentale. E l’eventuale conflitto armato si risolverebbe in una catastrofe per tutti, Europa compresa…”.
Trova legittime le richieste della Catalogna?
“Non parlerei di legittimità vera e propria. Piuttosto, di oggettività dei movimenti di popolo, che devono essere ricondotti in una cornice vantaggiosa per tutti e non soltanto per le aspirazioni dei catalani. Mi è difficile pensare che questa vicenda si concluda con un ritorno coatto della Catalogna nella Spagna: sarebbe meglio definire un quadro politico e sociale più convincente, che non riguardi soltanto le questioni di carattere economico. Abbiamo visto come l’idea di una secessione interna alla Spagna solleciti soprattutto la mano degli speculatori. Spaventando gli operatori economici di tutto il mondo, si rischia d’impoverire ulteriormente la classe media e di allentare, se non frenare, la crescita economica, con grave danno per l’occupazione. Quindi, bisogna riflettere bene. Cosa che, probabilmente, non si è fatto a sufficienza”.
Perché l’opinione pubblica europea prende posizione senza sapere nulla delle reali ragioni che hanno portato a questa situazione?
“Barcellona è diventata una grande capitale del Mediterraneo, forse la sola in cui si parla una lingua propria, ma che non guida uno Stato. E’ una ‘città globale’, conclamata per le sue bellezze culturali e la propria apertura civile, conosciuta per le sue glorie nello sport. Nel giro di un mese, da quella città sono arrivate le immagini della tragedia del terrorismo e quelle della repressione poliziesca contro inermi cittadini che si recavano ai seggi. La libertà è sembrata essere in pericolo: le libertà civili e democratiche. Ora, l’opinione pubblica ha un desiderio chiaro: che la situazione ritorni alla normalità dentro un quadro politico e istituzionale certo, affinché vengano meno le divisioni che hanno lacerato e ferito la società catalana. E’ una prova, questa, che anche grazie al concorso della comunità internazionale verrà superata: non c’è mai stato tanto amore come oggi verso la questione catalana, che si vuol risolvere in un modo convincente e democratico. Il popolo catalano ha certamente dimostrato, in questa vicenda, una grande fermezza e una tensione democratica non comune, anche nelle divisioni più violente”.
Se l’indipendenza si realizzasse concretamente, quali possibilità ci sarebbero per Barcellona di rientrare nell’Ue?
“Pressoché nessuna: lo riferiscono i Trattati e, a questi, si riferiscono sia il Commissario Junker, sia i Paesi membri dell’Unione. Questa condizione, però, era chiarissima ai leader del secessionismo catalano. Tanto è vero che qualcuno ha sospettato che gli ‘affidavit’ del loro riconoscimento sarebbero arrivati da Paesi extra-europei. Bisognerà capire meglio e più avanti questa storia…”.
L’allarme economico legato all’indipendenza è reale, oppure è solamente un ricatto psicologico?
“Non c’è dubbio che il Governo centrale abbia alimentato le paure e influenzato qualche abbandono. Tuttavia, va anche detto che, fra i gruppi economici che stanno spostando la loro sede sociale, ce ne sono alcuni che hanno un fortissimo radicamento catalano (penso alla Caixa) e che, probabilmente, sono stati non completamente ostili al processo indipendentista. L’economia richiede stabilità, ma quella reale, non quella virtuale e finanziaria, la quale in questi giorni ha addirittura speculato sulla crisi spagnola. L’economia reale non può non soffrire i contraccolpi di una continua mobilitazione sociale, di un rapporto teso fra Governo centrale e istituzioni locali, nelle ricadute negative del turismo nella regione, o nella militarizzazione di fatto della Catalogna. L’allarme è più che reale. E la tendenza dovrà essere, al più presto, invertita”.
Come vede il futuro prossimo della Catalogna e della Spagna?
“Il loro sembra un legame indissolubile, un dilemma ovidiano: “Nec tecum, nec sine tecum vivere possum”. C’è un’interdipendenza storica e un reale e consistente intreccio di interessi che rendono complicate le rotture traumatiche, fatta salva una nuova cornice istituzionale, che esalti la natura specifica della Catalogna in una Spagna capace di federare le proprie nazionalità, come è occorso recentemente nel nuovo rapporto con i Paesi Baschi. E’ un processo che vedo possibile e che, tuttavia, deve passare attraverso delle prove politiche e democratiche convincenti. D’altronde, lo stesso voto referendario conferma una forte tendenza separatista, ma non certifica una maggioranza robusta e sufficiente per una scissione non concordata. Meglio sarà tendere verso una soluzione ‘mediana’, capace di contemplare le esigenze di tutti, che sviluppi, in futuro, un rapporto meno conflittuale. Quando una questione si ripresenta ciclicamente e divampa come i ‘vulcani dormienti’, ciò significa che il problema esiste e che deve e può essere risolto con gli strumenti del XXI secolo: quelli del dialogo, della politica e della democrazia”.
(19 ottobre 2017)
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