di Vittorio Lussana twitter@vittoriolussana
Salutiamo con affetto l’ultimo viaggio di Paolo Villaggio, il quale in questi giorni è riuscito a “prendere l’autobus al volo” verso il paradiso. Egli era un ottimo autore e scrittore, ma in questo nostro stravagante Paese è potuto emergere soprattutto come attore comico-brillante. “Impara l’arte e mettila da parte”, dicono spesso gli attori di teatro. Un ‘adagio’ che invita i più giovani a comprendere come purtroppo, qui da noi, puoi essere ‘bravo’ quanto ti pare, ma poi il successo ti premia quando meno te lo aspetti, in seguito a scelte casuali, oppure ancora accettando compromessi ignobili. A Paolo Villaggio è accaduto esattamente il contrario: gli è riuscito ciò che era più difficile – ‘sfondare’ con il ‘cabaret’ – ma è rimasto incompreso per quello che realmente egli era. E cioè un intellettuale e uno scrittore raffinatissimo. Molti pensano che la degradazione antropologica del popolo italiano sia avvenuta soltanto di recente a causa dei social network, i quali hanno fornito una ‘valvola di sfogo’ a tutti gli umori di ‘pancia’ delle persone. Ciò è vero solo in parte: oggi, più semplicemente, la nostra grettezza morale non può più essere occultata o rimossa. Una sterilità egoistica, che si nota sempre più. Paolo Villaggio aveva già da tempo compreso la ‘mostruosità’ degli italiani, lavorando alla Cosider: un’esperienza che lo pose di fronte a un esercito di ‘italianucci’ ignoranti, pavidi, vili e opportunisti. Prese allora la ‘penna’ in mano e cominciò a tratteggiare un personaggio, il ragionier Ugo Fantozzi: un impiegato ‘sfigato’, quotidianamente costretto a subire le ‘angherìe’ di colleghi perennemente impegnati in tornei di ‘battaglia navale’; di ‘oche’ dissociate, orgogliose unicamente per aver vinto il titolo di ‘Miss IV piano’; di dirigenti e manager ossessionati da fisime e passioni sportive che tentano di inoculare forzosamente ai propri sottoposti. Chi ha letto veramente Fantozzi sa bene che si tratta di un capolavoro di grottesca ironìa, notevolmente al di sopra dei film che ne sono derivati. Nel corso degli anni ’70, Villaggio sviluppò per la televisione italiana anche un’altra ‘caricatura’, molto simile a quella di Ugo Fantozzi: il ragionier Giandomenico Fracchia (nella foto a destra). Un esperimento meno riuscito, ma indubbiamente assai efficace per far passare allegre serate al pubblico italiano. Il quale, di fronte a Fracchia e Fantozzi, si è sempre limitato a sorridere per i loro continui e dolorosi infortuni, per le disastrose partite di calcio tra ‘scapoli’ contro ‘ammogliati’, per la canna della ‘Bianchi’ che gli finisce direttamente nel ‘culo’. Gli italiani hanno sempre riso sadicamente di tutto questo, senza riuscire a comprendere nient’altro. Un po’ come accaduto per il film ‘La dolce vita’ di Federico Fellini, da sempre giudicato come un’esaltazione celebrativa della vita notturna di Roma, mentre invece si tratta dell’inesorabile condanna del nostro paganesimo provinciale. Paolo Villaggio è stato un intellettuale autentico all’interno di un Paese in cui sopravvive un pregiudizio, tanto qualunquista quanto assurdo, secondo il quale tutto ciò che proviene ‘da sinistra’ sarebbe eccessivamente ‘sottile’, di difficile decrittazione per gli italiani, al fine di costringerli a rimanere rozzi e ignoranti come son sempre stati. Ecco spiegato perché, in questi giorni, quasi nessuno ha ricordato il magnifico testo, scritto per l’amico De Andrè, della canzone: ‘Carlo Martello di ritorno dalla battaglia di Poitiers’. Ed ecco perché egli ha dovuto sopravvivere indossando, fino al suo ultimo giorno di lavoro, la ‘maschera’ dell’attore comico-brillante: perché agli italiani la verità non si può dire, se non nascondendola dietro a una celia o tramite uno scherzo. Si tratta di una questione fondamentale, che riguarda anche noi giornalisti: siamo tutti tenuti a evitare ogni ‘effetto specchio’, poiché altrimenti si finisce col risultare antipatici. Tutto dev’essere ‘imbastardito’ da un’ipocrisia cattolica che conduce, dritti di filato, verso l’omologazione, a un modo unico di pensare e di comportarsi: esageratamente indulgenti verso se stessi, estremamente severi con gli altri. In un’intervista rilasciata non molti anni fa a una delle testate che dirigo, Paolo Villaggio ci aveva confessato questo suo disagio: un Paese ancora fermo al corporativismo fascista; l’esistenza di una ‘casta’ di editori ‘pasticcioni’, i quali si son sempre rifiutati di riconoscerlo in quanto autore e scrittore di livello. E’ vero: il suo talento risiedeva proprio nel saper rappresentare, in forme caricaturali, la realtà e i suoi variopinti personaggi. Ma Paolo Villaggio non era solamente un ‘pagliaccio’: c’era di più, molto di più. E sperare che gli italiani lo comprendano risulta sostanzialmente impossibile, poiché siamo un popolo che merita pienamente di esser sempre preso per il ‘naso’.
(6 luglio 2017)
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