di Vittorio Lussana twitter@vittoriolussana
Giungiamo, dunque, al terzo ‘spaccato’ della presente indagine. Ovvero, alla questione relativa alla cultura di ricerca più ‘alta’: quella storico-filosofica. Dopo una ‘lunga notte’ di muta erudizione, rischiarata solamente dal ‘crocianesimo eterodosso’ di Federico Chabod e dal marxismo ‘rovistante’ di Delio Cantimori – uno storico ‘gentiliano’ funambolicamente accampatosi su posizioni di frontiera “per questioni di chiarezza” – il mondo dell’establishment editoriale e culturale italiano ha compiuto, proprio in tale settore, il suo capolavoro più orripilante: la creazione di una storiografia di ‘appartenenza’, che ha preteso di riscrivere la Storia d’Italia sottoforma di epopea delle grandi forze popolari che hanno costruito la democrazia. Il profilo che è stato fornito del Partito socialista, del Partito comunista e dell’associazionismo cattolico, infatti, è quello di movimenti abilitati al protagonismo politico del dopoguerra non soltanto dal patrimonio di lotta dell’antifascismo, ma – e forse più – dalla loro estraneità alla tradizione del moderatismo liberale ‘prefascita’. Ciò ha rappresentato un errore gravissimo, che ha rinchiuso l’esperienza autoritaria ‘mussoliniana’ all’interno di una ‘parentesi storica’ capitata quasi per caso: una gigantesca ‘rimozione collettiva’, che ha finito col giustificare ogni genere di revisionismo. Grazie al cielo, non sempre un’appartenenza esplicita ha fatto velo all’onestà intellettuale, o è riuscita a ottundere le grandi capacità interpretative di alcuni storici. Così, la ‘Storia del socialismo italiano’ di Gaetano Arfè è riuscita ad approdare a una ben argomentata rivalutazione del riformismo ‘turatiano’; la documentatissima ‘Storia del movimento cattolico in Italia’ di Gabriele De Rosa ha saputo trarre in superficie un insospettato continente di uomini e istituzioni, quello dell’intransigenza clericale e populista, in cui hanno sempre germinato ‘sensibilità sociali’ destinate a ‘vaccinare’ il cattolicesimo democratico dai pericoli del confessionalismo; la monumentale ‘Storia del Partito comunista italiano’ di Paolo Spriano ha sfatato leggende e pregiudizi intorno a un Pci legittimo erede del Machiavelli, mettendone a nudo il cieco settarismo che lo ha reso responsabile di disastri ai quali è stato poi costretto a rimediare in fretta e furia; per concludere, Rosario Romeo, ne ‘Il giudizio storico sul Risorgimento’, oltre a rianimare un indirizzo di studi ormai ‘negletto’, ha saputo sforzarsi nel tentativo di salvare quei valori di libertà civile, intraprendenza individuale, serietà politica, competenza amministrativa e spirito di servizio verso le pubbliche istituzioni, minacciate dalla demagogia tribunizia e dalle ‘elemosine’ di uno stato sociale concepito nella maniera più ‘assistenzialista’ che si potesse immaginare. Insomma, fatte salve alcune eccezioni, per l’intellighentia intellettuale italiana la nostra società, per lunghi decenni, è stata solamente immaginata, puramente ‘supposta’, mai indagata nelle sue movenze più profonde. Si tratta di una lacuna di non scarso rilievo, aggravata dalla colpevole sufficienza con cui si è guardato ai cataloghi delle scienze sociali, in altri Paesi in pieno rigoglìo. L’antropologia culturale, per esempio, a livello accademico è rimasta una materia per troppo tempo tributaria della Storia delle religioni e delle cosiddette ‘tradizioni popolari’, le quali hanno fatto passare inosservati lavori notevolmente interessanti come quelli di Franco Ferrarotti e Sabino Acquaviva. Eppure, di analisi di costume si è sempre avvertito il bisogno, se non altro perché la cultura, in quanto ‘sistema normativo’, ovvero come repertorio di valori e comportamenti applicabili nella vita quotidiana e non certo come mero ‘bagaglio formale’ di conoscenze, subisce modificazioni continue, che non possono venir genericamente addebitate a una mera ‘appendice industriale’ della cosiddetta ‘società di massa’. Per tutti i motivi che abbiamo elencato, l’Italia è oggi un aggregato senza alcuna identità, poiché il mondo della nostra cultura ha preferito rimanere a bordo della propria ‘mongolfiera’ senza accorgersi, se non in rari casi, delle ripercussioni di un progresso totalmente materialistico sulla mentalità, le abitudini, i costumi e i comportamenti degli italiani. E questo è uno dei ‘nodi cruciali’, che dovrebbero impegnarci in una realistica e credibile ristrutturazione ‘interiore’ del Paese. E’ stato sempre questo il grave pregiudizio che ha afflitto la gran parte dell’intellettualità italiana, soprattutto quella di sinistra: la convinzione che un sistema produttivo non dovesse venir modificato ‘dall’interno’, ma solamente abbattuto alle fondamenta, per poi passare spesso all’eccesso opposto di un soggettivismo esasperato, in cui compito del pensiero ‘operaista’ non dev’essere quello di intuire i progetti del capitale per organizzare una risposta efficiente, bensì di scompaginarne le previsioni, di anticiparne le mosse, di renderne obbligatoria una direzione di marcia che determinasse una crisi irreversibile e un capovolgimento rivoluzionario. Per più di un secolo, si è esclusivamente teorizzata l’instabilità, il radicalismo, il rifiuto di ogni mediazione, respirando a pieni polmoni quella ‘critica della democrazia’ che ha caratterizzato la militanza politica di sinistra della prima metà del novecento. L’intellettualismo ‘italo-marxista’, insomma, ha finito col trasmettere un’eredità nefasta, poiché ha inaugurato l’era del delirio della ragione e della deformazione grottesca di ogni evidenza concreta, misurabile, fattuale. Ma per riuscire a evadere da una simile concezione e giuocare veramente un ruolo culturale credibile, una moderna sinistra socialdemocratica e riformista deve convincersi a non rimuovere ogni spirito di indagine della realtà sociale e dei multiformi interessi che in essa si accavallano. E non può nemmeno limitarsi a produrre qualche ‘cupo brontolìo’ sopra il cielo di un Paese in cui gli intellettuali cosiddetti ‘progressisti’ non riescono, quasi mai, a ‘centrare’ veramente il pensiero di fondo degli italiani, credendo di rappresentare, essi stessi, un’umanità rigenerata. A vario titolo.
(28 dicembre 2016)
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