di Daniele Santi
Pare che per una volta si entri nel merito (per favore, insultateci e diteci che siamo stipendiati da Renzi!) e che ci siano opinioni che non gridano alla dittatura incombente, inutile in questa sede ricordare i personaggi che di dittatura delirano). E’ il giudice emerito della Consulta Prof. Sabino Cassese che in un’intervista su l’Unità parla della riforma costituzionale come di una esigenza “avvertita circa quaranta anni fa” rispetto alla quela sono stati fatti “molti tentativi, tutti abortiti. La ragione sta nel mutamento del contesto istituzionale generale. Nel 1947, quando la Costituzione fu approvata, non esisteva l’Unione Europea e non si era neppure avviata la globalizzazione. Oggi governi e parlamenti nazionali debbono rispettare standard sovranazionali. I titolari di quasi tutte le più alte cariche dello Stato dialogano quotidianamente con molti dei duemila organismi regolatori universali. Sono questi che funzionano da contrappesi agli organismi nazionali. Insomma, il mondo è cambiato; non dovrebbe quindi cambiare anche la Costituzione? A questi cambiamenti esterni si aggiungono quelli interni: qui, da noi, il potere pubblico è diviso tra Stato e venti regioni, tutte dotate di poteri legislativi. E l’esercizio del potere legislativo da parte di Stato e regioni è sottoposto al vaglio di costituzionalità e a quello di compatibilità comunitaria”. Quindi parrebbe che nonostante le grida di Travaglio e del suo giornale dalla verità in ogni virgola, nonostante i corsivi del novantenne che si sente un filosofo che ha cambiato la storia, già deputato socialista prima di diventare anticraxiano, il rischio di dittatura monocamerale sarebbe ben lontano.
Il giude emerito Cassese parla poi del Titolo quinto della Costituzione, quello della barbara riforma del governo D’Alema che ha creato solo disastri, quella del 2001 per intenderci, che ha costretto la “Corte, dinanzi alle violazioni costituzionali delle Regioni” a contenere “l’espansione regionale in aree di interesse nazionale e ridefinire i confini relativi alle materie sulle quali legislazione regionale e legislazione nazionale concorrono. La riforma costituzionale fa una scelta, quella di eliminare le materie di legislazione concorrente. Per farlo, stabilisce che lo Stato adotta le norme generali e comuni, le Regioni quelle differenziate e locali. Questo non vuol dire riaccentrare, significa solo distinguere meglio, senza lasciare il difficile compito tutto nelle mani della Corte Costituzionale. Poi, l’esperienza ha mostrato che alcune materie erano state trasferite alle Regioni senza tener conto del loro carattere nazionale (penso a quelle attinenti alle grandi reti). Dunque, la riforma ridefinisce la linea di confine tra centro e periferia anche sulla base dell’esperienza degli ultimi quindici anni”.
Possiamo davvero immaginare che D’Alema ammetta che la sua strombazzata riforma del 2001 (votata contro tutto e tutti e a colpi di maggioranza) è stata un clamoroso fallimento che ha creato solo disastri senza scatenare le sue legioni contro il governo che ha l’ardire di metterci le mani? Ma è sulla pericolosità dell’Italicum “combinato” con le Riforme costituzionali che Cassese zittisce i critici tout court: “La riforma costituzionale riguarda due punti del sistema costituzionale: Senato e Regioni. Non tocca il sistema parlamentare, che rimane immutato. Né tocca la formula elettorale, che è rimessa a una legge ordinaria. Non si può giudicare la riforma costituzionale prendendo in considerazione qualcosa che è estraneo ad essa (…) non vedo ragioni per opporsi così radicalmente alla legge elettorale. La sua caratteristica principale consiste nel premio di maggioranza dato alla forza politica che raggiunge il 40 per cento dei voti o che si aggiudica il ballottaggio. Questa scelta è criticata perché – si dice – così governerà una minoranza. Ma quasi tutte le democrazie sono governate da minoranze (Cameron e Obama governano con un consenso elettorale inferiore al 40 per cento). Gli esperti della materia, infatti, dicono che la democrazia non è il governo della maggioranza, bensì quello della più forte minoranza”.
Alla domanda del quotidiano sul rischio di “plebiscito” sul premier Renzi, Cassese ha risposto che gli Italiani si pronunceranno “sulla modifica di alcuni articoli della Costituzione. Giuridicamente, il mancato passaggio non comporta dimissioni del governo, così come il passaggio non comporta fiducia al governo”.
L’intervista completa sul quotidiano l’Unità qui.
(29 maggio 2016)
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