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HomeGiustappunto!"Giustappunto" di Vittorio Lussana: "1968, l’anno dei miracoli (terza e ultima parte)"

“Giustappunto” di Vittorio Lussana: “1968, l’anno dei miracoli (terza e ultima parte)”

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Vittorio Lussana 02di Vittorio Lussana   twitter@vittoriolussana

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cosa ha proposto, alla ‘fine della fiera’, il movimento studentesco del 1968 nelle sue elaborazioni più ‘interessanti’? Alcuni pregevoli documenti di quegli anni configurarono situazioni e richieste molto diverse da luogo a luogo. La differenza che balza subito agli occhi passa tra i testi più radicali, preannuncianti la ‘diluizione’ del movimento e il suo stesso scioglimento nella società “a fini di una battaglia anticapitalistica generale”, con le ‘tesi’ più ‘moderate’, le quali si attennero a una critica dell’organizzazione degli studi e a una serie di proposte di ristrutturazione delle università, sostitutive di quelle avanzate dalle classi ‘dominanti’. Le ‘Tesi della Sapienza’, per esempio, presentate dai ragazzi dell’Università di Pisa al XVI Congresso dell’Unione goliardica italiana, affermavano che “il movimento studentesco ha come propria controparte la classe borghese storicamente dominante” e che “tale dominio di classe si manifesta attraverso una serie di mediazioni che sono espressione di un piano organico del capitale”. Altri ‘piccoli lavori’ miravano a “una costante verifica della propria analisi teorica”, riconoscendo “nella classe borghese la propria controparte e organizzandosi in sindacato studentesco”. Un noto saggio degli studenti di sociologia dell’Università di Trento, intitolato ‘Potere e società’, si spinse ben oltre e, adoperando un linguaggio meno ‘intinto’ nel marxismo classico, inseguiva il miraggio di un generale affratellamento tra tutti i ‘dannati della Terra’: “Il ‘potere dei fiori’ è e rimane soltanto un’etichetta se non si sostituisce qualcos’altro ai ‘fiori’, se si compiace del proprio isolamento, se vegeta all’interno di se stesso, se non comprende che nel mondo ci sono altri esclusi, se non si collega con essi, se non crea il fronte dei ‘senza potere’ da opporre a coloro che il potere ce l’hanno e lo usano. Una riprova che il ‘potere dei fiori’ mostra, sul terreno pratico, i suoi limiti, è da ricercarsi nel diritto di cittadinanza che gli riconosce il sistema. Il sistema non compirà la ‘gaffe’ di impedire al ‘potere dei fiori’ di vivere: non si distrugge quel che non crea problemi, ciò che non rappresenta una minaccia, quel che può essere, al limite, utilizzato dal sistema stesso come elemento di ‘colore’, interessante a vedersi. Per il sistema, invece, occorre impedire che il ‘negro’ possa capire che la sua condizione è la medesima in cui versa il ‘giallo’, il sudamericano, il ‘rosso’, l’operaio e lo studente, poiché occorre spezzare sul nascere la possibilità che l’intreccio delle mani che si stringono possa costituire una barriera, un fronte”. Di converso, gli aspiranti architetti del Politecnico di Milano si accontentavano di ridisegnare la propria figura professionale, perseguendo una radicale trasformazione didattica della ricerca e dell’organico attraverso la messa in discussione dei “rapporti istituzionali tradizionali”, mentre gli allievi della Cattolica, protagonisti di un’occupazione inaspettata, che aveva lasciato ‘attonite’ tutte le autorità ma che traeva motivo dal semplice aumento delle tasse d’iscrizione all’Università, si mostravano ancor più ‘minimalisti’, reclamando essenzialmente “la democratizzazione immediata dell’università, l’introduzione di rappresentanze di tutte le componenti negli organi di governo dell’ateneo, la garanzia della libertà di espressione culturale e politica”. Insomma, quando le agitazioni si esaurirono, più che le analisi prolisse dei ‘compitini teorici’ appena citati o dei numerosi ‘bollettini di guerra’ emersi dalle interminabili assemblee permanenti, del ’68 sopravvissero soprattutto alcune ‘tecniche’ di comunicazione, adottate nel vivo delle occupazioni e che, bene o male, divennero successivamente patrimonio delle femministe e degli operai ‘incazzati’: dal ‘dazebao’, il manifesto vergato con il pennarello a spirito in caratteri cubitali, utilissimo per l’informazione interna, al ‘samizdat’, una sorta di antenato della ‘newsletter’, stampato al ciclostile e recapitato manualmente a un numero ristretto di destinatari; dalla veglia notturna, spesso ravvivata da ‘fiaccolate’ tanto care agli studenti cattolici, al ‘sit-in’, ovvero lo stazionamento inattivo in zone dense di traffico o davanti ad ambasciate, ministeri ed edifici pubblici. In ogni caso, già all’inizio del 1969 molti ‘sessantottini’ si trovarono costretti a tornare a casa, recuperando la propria normalità quotidiana e ristabilendo un rapporto con le loro famiglie e il loro lavoro. Ma essi non erano più quelli di prima: alcuni iniziarono ad ‘arrovellarsi’, portandosi dentro una sensazione di ‘vuoto’, come quello di chi ha vissuto un momento ‘irripetibile’; altri contrassero la malattia del ‘reduce’, risentito per l’indifferenza vagamente ostile che li circondava; altri ancora, fortunatamente la maggioranza, tentarono di mettere a frutto la scoperta che “si poteva”: si poteva ‘contare di più’ socialmente; si potevano assumere comportamenti ‘giocosamente trasgressivi’; si poteva ‘disobbedire razionalmente’; si poteva realizzare qualcosa con un gruppo di amici o di persone – una rivista, una mostra, un documentario – senza dover per forza ‘piegare la schiena’ o soggiacere ai riti della ‘competizione individuale’; si potevano, insomma, trasferire nuovi atteggiamenti morali e culturali nelle proprie professioni. Purtroppo, però, vi fu anche chi di tornare a casa non ne volle sapere. Persuasi dalla scoperta che si poteva “fare la rivoluzione”, rovesciare il sistema e sconfiggere l’imperialismo, gli elementi più estremisti trovarono un’opportunità che li aiutò a uscire dal vicolo ‘cieco’ in cui erano finiti con l’esplosione, verso la fine del 1969, della vertenza per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici: il famoso ‘autunno caldo’. La contrapposizione si era già aperta nel settembre del ’68, ma nel febbraio dell’anno successivo avevano iniziato ad accavallarsi astensioni dal lavoro ed episodi di ‘scontro’, che avevano reso incandescenti soprattutto le officine della Fiat di Mirafiori. Dopo uno stillicidio di scioperi, dagli inizi di maggio in poi, a Torino divenne abituale la presenza di molti studenti davanti ai cancelli delle fabbriche. Il giorno 27 di quello stesso mese, un corteo di operai e studenti ‘infilitrati’ attraversò quasi tutti i reparti della fabbrica al grido di “Potere operaio”! E nel successivo mese di luglio, durante una manifestazione tenutasi in corso Traiano e indetta proprio dalla ‘Nuova sinistra’, scoppiarono incedenti che si conclusero con una trentina di arresti, un processo per direttissima e l’immediato licenziamento di 18 lavoratori condannati. In settembre, la Fiat sospese, dopo mesi di continue agitazioni a ‘gatto selvaggio’ o a ‘scacchiera’, 25 mila lavoratori e, cinque giorni dopo, si registrò un fallito tentativo di occupazione della fabbrica che aveva ‘segnalato’ la presenza di numerosissimi ‘esterni’, fatti entrare di soppiatto dai dipendenti. Durante l’autunno, le lotte si diffusero a ‘macchia d’olio’, fino ad arrivare al blocco totale della produzione. Finalmente, il 21 dicembre, anche a causa del clima di angoscia in cui era piombato il Paese per l’orrenda strage di piazza Fontana a Milano, i sindacati riuscirono a chiudere una vertenza che prevedeva: a) 65 lire di aumento orario per tutti i lavoratori; b) l’aggiunta di un giorno al periodo annuale di ferie; c) il diritto a convocare assemblee sui luoghi di lavoro; d) la possibilità di concordare il ‘cottimo’ senza pretendere un aggiornamento dei tempi di lavorazione ai livelli massimi ottenuti dagli operai cosiddetti ‘velocisti’. A prescindere da tale ‘successo’ sindacale, l’autunno ‘caldo’ rappresentò, in realtà, un primo momento di ‘sdoppiamento’ e, per lunghi tratti, di aperta separazione, tra gli operai sindacalizzati e quelli ‘incazzati’, tra gli organizzativisti e i ‘movimentisti’. Un dualismo che rischiò fortemente d’indebolire il sindacato ufficiale, portando numerosi lavoratori sull’orlo del ‘baratro’ professionale, materiale e persino esistenziale, come ‘radiograficamente’ documentato da Elio Petri nel film: ‘La classe operaia va in Paradiso’. Ma più d’ogni altra cosa, queste avanguardie – o retroguardie – studentesche, attraverso una campagna sostanzialmente ‘incendiaria’, nel proprio ‘luddismo’ distruttivo e astratto ridussero la possibilità della nascita di una nuova cultura della professionalità operaia, fondata sulla reale cognizione dei processi di produzione attraverso cui le singole mansioni s’inseriscono nel complesso del ciclo produttivo e industriale. Insomma, quella della ‘Nuova sinistra’, diretta discendente del ’68, rappresentò una ‘perversa torsione’ del marxismo, basata aul ‘casino’ come coronamento della lotta e il parossismo intellettuale come forma di ‘esportazione’ della ‘coscienza di classe’. Situazioni che approdarono al ‘corrodimento’ di un moto che, invece, era sorto con molti momenti di ‘spontaneiità’, innestandosi a una serie di istanze ‘normalmente modernizzatrici’: 1) richieste di relazioni più equilibrate; 2) condizioni di lavoro meno asimmetriche rispetto ai livelli di reddito e di tenore di vita dei lavoratori dipendenti; 3) un abbassamento delle ‘piramidi gerarchiche’; 4) la contrattazione permanente degli aspetti normativi dei rapporti di lavoro. In conclusione, i ‘percorsi’ attraverso i quali, tra il 1968 e il 1977, ‘scesero in campo’, in Italia, determinati ‘movimentismi’ studenteschi, operai e, in seguito, ‘femministi’ – per non parlare dei successivi ‘frutti avvelenati’ rappresentati dalla formazione di gruppi terroristici di estrema sinistra e di estrema destra – furono causati da una modernizzazione avvenuta a prezzo di ‘laceranti convulsioni’, di vite bruciate, di ‘febbri’ dell’intelletto assolutamente sproporzionate. Altri Paesi, come per esempio gli Stati Uniti e la Germania, negli stessi anni avevano conosciuto un adeguamento praticamente ‘automatico’ delle istituzioni pubbliche e private alle nuove possibilità offerte dallo sviluppo economico: solamente l’Italia ha dovuto sopportare costi elevatissimi per riuscire a ottenere ciò che, nel resto del mondo, vennero considerate richieste ‘normali’ di miglioramento delle condizioni di istruzione e di lavoro. Per dirla in tutta franchezza, anche e soprattutto nei confronti di chi spesso si rifiuta di apprendere veramente quanto accaduto nel ’68 o di comprenderne l’importanza storico-politica, addebitandogli solo le ‘ricadute’ più ‘decadenti’ o ‘nichiliste’, chiarissima appare la necessità intellettuale e morale d’indicare come, nell’analizzare determinati fenomeni, non serva rinchiudersi nei ‘comodi recinti’ del qualunquismo ‘egoistico’, bensì occorra allungare il nostro ‘sguardo’ e interpellare, con profondità e urgenza, la nostra ‘memoria storica’. Perché in Paesi come il nostro, in cui il ‘digiuno politico’ si è protratto per troppo tempo – prima con il fascismo, poi con le serrate oligarchiche e, infine, con il ‘professionismo partitocratico’ – dove la ‘doppiezza’ e il ‘perbenismo’ dell’etica dominante, custodita specificamente dalla Chiesa cattolica, hanno a lungo represso oltre ogni misura qualsiasi desiderio di ‘felicità possibile’, diviene inevitabile che quella libertà civile e sociale, espressa e teorizzata dal liberale Stuart Mill, non si faccia largo a ‘scossoni’, se non proprio a ‘cannonate’.

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