di Vittorio Lussana twitter@vittoriolussana
Proprio in questi giorni è ricorso il 48esimo anniversario della rivolta studentesca di Valle Giulia, a Roma. Si trattò dell’episodio più significativo di quel movimento studentesco del ’68 che sembrò aprire un divario definitivo tra la generazione dei ‘padri’ e quella dei ‘figli’. Una rivolta che cominciò a segnalare le profonde ‘crepe’ della società italiana, che, per la prima volta, venne messa sotto accusa per la propria ipocrisia e il suo bigottismo di fondo. Tratti che ancora oggi rimangono salienti nella visione ‘integrista’ della cultura cattolica italiana, come dimostrato di recente dalla confusa vicenda delle Unioni civili e della cosiddetta ‘stepchild adoption’. Ma andiamo con ordine e proviamo a riassumere quanto accadde in quel favoloso ‘anno dei miracoli’. Nel febbraio del 1968, gli studenti dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma occuparono le facoltà di Lettere e Filosofia riuscendo a ottenere, da una parte dei professori, la promessa della sperimentazione di una didattica ‘alternativa’ (controcorsi, seminari autogestiti, esami di gruppo e così via). Ma l’allora Magnifico Rettore dell’ateneo, aizzato dall’ala più intransigente del corpo accademico, decise di chiamare la Polizia, la quale intervenne sgombrando le aule e prendendo tutti a ‘randellate’. Gli studenti, allora, organizzarono immediatamente un corteo che si diresse verso Montecitorio, al fine di protestare contro tali fatti, ma di nuovo la Polizia li bloccò per la strada, picchiandoli selvaggiamente. L’inquietudine studentesca cominciò dunque a salire anche tra gli studenti più ‘moderati’, quelli che generalmente hanno il solo interesse a terminare gli studi il più in fretta possibile. E per il giorno successivo, molti ragazzi decisero di riunirsi in piazza di Spagna, con l’intento di occupare la facoltà di Architettura, un edificio immerso nel bel mezzo dei bellissimi giardini romani di villa Borghese. Essi iniziarono a dirigersi verso le strade di Valle Giulia, ma sul posto trovarono ogni strada sbarrata dalla polizia, la quale stava già presidiando l’edificio. Le forze dell’ordine, non appena intravidero il corteo, iniziarono a ‘caricarlo’ pesantemente, inseguendo i ragazzi in mezzo alle aiuole e ‘pestando’ duramente chi veniva catturato. Ma gli studenti, all’improvviso, reagirono con forza, picchiando a loro volta i poliziotti e incendiando varie camionette e numerose ‘volanti’ della Polizia: era la guerra! Il 26 marzo successivo, giorno di Pasqua, uno studente della facoltà di sociologia dell’Università di Trento chiese di entrare in contraddittorio con il prete che stava celebrando la propria predica nella cattedrale della città. Ma i fedeli, inferociti, lo afferrarono, lo malmenarono e lo scaraventarono in strada. Nei tre giorni successivi, capannelli di studenti cercarono di penetrare nella chiesa. Tuttavia, non riuscendoci, decisero di accamparsi sul sagrato, leggendo a voce alta alcuni passi delle opere di Don Lorenzo Milani, fino al giorno 30 marzo, in cui centinaia di locali iniziarono a lanciare mele e uova contro il portone della basilica, alternando la bestemmia con l’accusa di ateismo (“Vegnì fora senzadio! Vegnì fora porcodio”!). Qualche settimana prima, il preside del Liceo Parini di Milano era stato sospeso dal ministro della Pubblica istruzione per essersi rifiutato di cacciare dalla scuola i suoi alunni con l’aiuto della forza pubblica. Immediatamente, si stabilì un clima d’intesa tra studenti medi e universitari, che toccò il culmine il 23 marzo, quando venne occupata addirittura l’Università cattolica e la Polizia dovette reagire sgomberando l’istituto con la forza, sprangandone ogni accesso. Nel giro di poche ore, circa 4 mila studenti si assieparono in largo Gemelli apostrofando, per bocca di Mario Capanna, i tutori dell’ordine, affinché sloggiassero alla svelta: ne ricavarono una sortita a colpi di manganello e una cinquantina di arresti. Il 21 dicembre, sempre a Milano, un gruppo di giovani dell’Università statale organizzò una protesta contro la mercificazione del Natale innanzi al grande emporio de ‘la Rinascente’. Le belle signore della buona società meneghina stavano celebrando tranquillamente il loro tradizionale rito dello shopping, mentre i dimostranti discorrevano in modo bonario con i custodi del grande magazzino, quando a un certo punto una marea di curiosi si accalcò intorno agli addetti al volantinaggio, cominciando a proferire parole grosse: subito piombarono le ‘volanti’ e, mentre i passanti si disperdevano, i ragazzi vennero regolarmente picchiati e tradotti in questura. Questi episodi già da soli segnalano quali furono i caratteri salienti di quella ‘rivolta’: la ‘compartimentazione generazionale’ degli studenti; il rifiuto di un sapere avulso dai bisogni di chi ne apprende i contenuti; il ricorso a tattiche ‘perturbative’; ‘chiazze’ di cattolicesimo ‘dissenziente’; un antiautoritarismo che investì imparzialmente le autorità scolastiche, il clero, la politica, la borghesia e la famiglia; il desiderio di riappropriarsi di una propria ‘soggettività’; una denuncia globale e senza appello del sistema di produzione, distribuzione e consumo dei beni. Ma il ’68 italiano ha avuto connotati originali, rispetto a quanto stava accadendo nelle altre università di tutto il mondo? Quelle appena elencate, in effetti, sono caratteristiche abbastanza comuni di una ribellione planetaria, che in quegli anni incredibili si stava diffondendo da Berkeley a Tokio, passando per Berlino e Parigi. Tuttavia, col senno di poi, possiamo cogliere alcune differenze significative: innanzitutto, il movimento studentesco fu radicalmente ‘antistituzionale’. E siccome istituzioni come la famiglia e l’università non sono uguali dappertutto, anche la contestazione assunse, per forza di cose, forme, obiettivi e stili decisamente ‘consentanei’ alla loro specifica natura. Rispetto al ‘maggio francese’, qui da noi non si registrò mai alcuna reale convergenza fra gli studenti e una buona parte dell’intellettualità ‘adulta’. Nonostante ciò, si può affermare che si sia trattato di ‘spinte’ e motivazioni della matrice prettamente ‘transnazionale’, poiché molte analisi socio-antropologiche relative a quell’improvvisa ribellione di tanti giovani in tutto il mondo dipendevano da distinti fattori sociali e psicologici, diversi a seconda dei luoghi e dei tipi di società: 1) un’esagerata permissività iperconsumista nell’educazione americana; 2) una reazione a un eccesso di autoritarismo in quella tedesca e in Giappone; 3) la più totale mancanza di democrazia nei Paesi dell’Europa orientale; 4) una cronica e disastrosa mancanza di posti di lavoro per gli studenti francesi e italiani; 5) una sovrabbondanza di carriere in quasi tutti i settori professionali negli Stati Uniti. Tutte cose che appaiono localmente plausibili, ma che sono in netta contraddizione con il fatto che quella rivolta fu, comunque, un fenomeno mondiale. Rimane pur vero che un comune denominatore sociale dei ‘furori sessantottini’ non è facilmente rintracciabile. Ma è altrettanto realistico affermare quanto quella generazione di ragazzi sembrò ovunque, in ogni Paese del mondo, psicologicamente colta da un sorprendente coraggio, da una clamorosa volontà di agire e da una non meno sorprendente fiducia nella possibilità di un grande cambiamento planetario. Queste sono valutazioni di carattere fortemente ‘qualitativo’, più che delle autentiche cause di carattere empirico. Ma se ancora oggi ci si domanda cosa abbia effettivamente provocato quell’esplosione, diviene assurdo ignorare il fatto che il progresso tecnologico, il più delle volte, porta a veri e propri disastri, poiché la scienza non solo è spesso incapace di modificare le conseguenze del proprio stesso sviluppo, ma già allora aveva raggiunto un livello tale per cui non era rimasta neanche una ‘maledetta’ cosa che non venisse trasformata in guerra, o utilizzata per tale fine. Oltre alla persuasione di vivere in un mondo in cui scienza e tecnica vengono utilizzate per dominare e, talvolta, per sterminare, quella generazione seppe dimostrare una ‘coscienza’, ovvero la consapevolezza di essere, per l’appunto, una ‘generazione’. Non si tratta di una banale tautologia: anche se l’uso di un simile concetto come categoria di analisi storica non di rado è impreciso e astratto, ciò non significa che i giovani di allora dimostrarono lo straordinario coraggio di volersi introdurre a viva forza sul palcoscenico in cui si recitava la commedia sociale, muovendosi come un aggregato di interessi, aspirazioni e progettualità che erano già passati dallo stadio idealistico a quello concreto, risentendo del proprio contesto storico allo stesso modo delle élites e delle associazioni professionali.
(3 marzo 2016)
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