di Vittorio Lussana twitter@vittoriolussana
Ho ricevuto in questi giorni sulle colonne di ‘Laici.it’, sito web di approfondimento politico che dirigo dal gennaio 2011, il divertente commento di un artigiano di Vimercate, il quale mi ha accusato di essere “un intellettuale (di sinistra, ovviamente…) che non sa minimamente cosa significa possedere un’azienda e riuscire a far quadrare i conti”. Peccato che il sottoscritto, oggi, sia uno dei pochissimi giornalisti italiani che è riuscito a ritagliarsi un proprio ‘spazio’, seppur modesto, di totale autonomia, fondando una più che dignitosa attività editoriale (un fatto sorprendente per questo Paese: ciò è obiettivamente comprensibile…). Ma a prescindere dal mio percorso personale, quel che proprio certi nostri cari ‘lumbard’ continuano a non capire è che vivere in una città come Roma, ovvero una metropoli con quasi 3 mila anni di Storia, significa occuparsi, volenti o nolenti, di politica, cultura, arte, turismo e di tutti quegli eventi legati a tali settori. Sono queste cose il vero ‘oro’ di Roma: ci vuol tanto a capirlo? E la nota frase: “Con la cultura non si mangia” è un’emerita sciocchezza escogitata da un povero ‘mentencatto’ di Forza Italia. Arte, politica, cultura, turismo e attività ricettizie rappresentano i principali ‘comparti’ socioeconomici della capitale, la quale non può di certo mettersi a produrre cucine componibili dall’oggi all’oggi. E invece, no: secondo certi ‘schifidi’ piccolo borghesi del nord’Italia, se ti occupi di cultura sei uno che, nella vita, non fa praticamente un ‘tubo’, mentre Roma è solamente una città di pigri impiegati statali ‘furbacchioni’ e assenteisti. Ed ecco spiegato da dove ‘diamine’ proviene il noto slogan: “Roma ladrona”! Questo voler tratteggiare la vita degli altri con luoghi comuni ‘triti e ritriti’, dettati dall’arroganza tipica dei ‘pidocchi rifatti’ fa il paio con la consueta critica relativa al “linguaggio di persone come lei (riferito al sottoscritto…) che ‘spiattellano’ all’estero le nostre vergogne”. Qui siamo alla follìa pura: un giornalista, ovvero un addetto alla comunicazione, che non dovrebbe comunicare. Perché, allora, non metterci anche i chirurghi che dovrebbero evitare di operare i propri pazienti e i farmacisti dal venderci le medicine quando stiamo male? La verità è che l’avvento della Lega Nord ha condotto questo Paese a un livello di mediocrità bassissimo e schifoso. E’ anche vero che noi giornalisti abbiamo assecondato, almeno in parte, una regressione di questo genere, continuando imperterriti a invitare nei nostri talk show televisivi e radiofonici esponenti politici che sembrano veri e propri malati di mente a cui è stata concessa qualche ora di libera uscita. In ogni caso, la sequela di ‘stronzate’ di cui sono stato fatto oggetto risulta vieppiù affiancata da un critica nei confronti del “linguaggio” generalmente utilizzato dal sottoscritto, considerato troppo ‘aulico’ e ‘letterario’, dunque retorico. A parte il fatto che l’italiano stesso, per definizione, è una lingua ‘letteraria’, questa ‘ubbia leghista’ dell’ignoranza che sale al potere non solo non è mai riuscita ad affrancarsi dalle proprie origini di fenomeno degenerativo della società, ma finisce col denunciare la propria totale estraneità alla politica, la quale ha sempre e puntualmente trovato corrispondenza proprio nella retorica in quanto tecnica dell’argomentazione e del discorso persuasivo, raziocinante o emotivo che fosse. E’ proprio il linguaggio retorico, ovvero il tanto odiato “politichese”, a ‘fotografare’ le scelte concrete delle classi dirigenti destinate a incidere nella vita collettiva di una società. Se pensiamo, per esempio, alla parola ‘protezionismo’, con la sua suggestiva metafora della “difesa del lavoro nazionale”, o alla pretesta ‘mussoliniana’ di “costruire l’italianità” attraverso i manuali scolastici, oppure ancora all’invenzione, in epoca ‘giolittiana’, della “società rurale”, una figura retorica maturata agli albori della nostra rivoluzione industriale allorquando si trattò d’imporre una disciplina laboriosa e devota ai contadini che cominciavano a inurbarsi nelle fabbriche, ci si rende conto di come il ricorso all’uso della retorica sia uno dei principali strumenti dell’agire politico, parallelo a ogni epoca: una presenza naturale e costante della Storia. Ciò non vale solamente per l’Italia: anche la Francia ha conosciuto la travolgente oratoria di Jean Jaurès e di Georges Clemenceau, i quali hanno apportato il loro decisivo contributo retorico, rispettivamente, nelle riforme sociali e in favore della vittoria francese nella Grande Guerra. Proprio dalla comparazione e dal confronto tra retorica e politica scaturiscono quelle ‘parole’, ovvero quelle ‘categorie’, che delineano un’immagine: “un simbolo”, per dirla col quel rimpianto Umberto Eco scomparso in questi giorni. Simboli a cui competono, da sempre, ruoli essenziali, poiché ‘fermano’ una realtà, un principio, un diritto, una nuova ‘categoria’ culturale: senza la parola ‘esodati’ non si sarebbe potuto descrivere sinteticamente la gravissima condizione in cui si sono ritrovate alcune decine di migliaia di persone a causa di un errore burocratico grosso come una ‘casa’. Questo voler ‘sfuggire’ ogni categorizzazione culturale rimane l’alibi principale di un qualunquismo che tende a giustificare la radicalizzazione del dibattito politico e ogni forma di demagogia, consentendo la riduzione della politica stessa a perenne ‘rissa’ da cortile col pretesto di un odio irrazionale verso il cosiddetto “politichese” e l’avvenuto “crollo storico delle ideologie”. In verità, è vero esattamente il contrario: mantenere ‘fermi’ alcuni principi rimane il dato politicamente vincente, soprattutto oggi che ideologie, steccati e vetusti schematismi non esistono più. Ecco dunque che emerge la perfetta ‘ricostruzione’ di come sono andate le cose negli ultimi decenni: agli occhi di molti, la caduta del comunismo è apparsa un’occasione propizia per teorizzare il ‘casino’ e imporre una concezione ‘selvaggia’ della convivenza civile. Un momento favorevole di cui approfittare, al fine d’imporre una visione da ‘Far west’ della società. Grazie al cielo, la Storia procede per cicli più o meno lunghi, “per corsi e ricorsi”, come diceva, giustamente, Giovan Battista Vico. Corsi e ricorsi salutati i quali ci è consentito di selezionare, verificare e apprezzare soprattutto le idee di buona fattura, insieme a quelle convinzioni fondate sulla ‘roccia’ della conoscenza. Perché avere delle buone idee e saperle esprimere correttamente non comporta affatto l’adesione automatica a un’ideologia. Di destra, di centro o di sinistra che dir si voglia.
(25 febbraio 2016)
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