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Giustappunto! di Vittorio Lussana: “E da Sanremo, all’improvviso, tutti Arcobaleno”

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Vittorio Lussana 02di Vittorio Lussana   twitter@vittoriolussana

 

 

 

 

 

Nei giorni in cui il 66esimo Festival di Sanremo sta celebrando i suoi annosi riti e consunte banalità travestendosi di una pseudomodernità ‘arcobaleno’ – tanto per far capire agli italiani dove ‘butta’ il vento e di doversi adeguare all’arrivo delle Unioni Civili – diciamo subito che la nostra annuale kermesse canora, in realtà, deve farsi perdonare interi decenni di angosciante provincialismo nazionalpopolare. Una lunga incubazione di retorica, omofobìa, maschilismo e rotture di ‘coglioni’ varie che oggi, a seguito di un improvviso ‘rinsavimento’, si vorrebbe far passare in ‘cavalleria’. Il festival della canzone italiana ha attraversato la Storia di questo Paese, cercando a lungo di rassicurare il pubblico attraverso un nauseabondo clima di castità culturale e verbale, che ha impregnato per interi decenni il panorama della nostra produzione discografica. Mentre a Parigi, Georges Brassens e Juliette Gréco, già negli anni ’50 interpretavano brani musicali imperniati sui testi di Jean Paul Sartre, qui da noi, sino alla fine degli anni ’60 continuarono a imperversare le ‘marcette melense’ di Armando Fragna (‘Arrivano i nostri’; ‘I cadetti di Guascogna’; ‘I pompieri di Viggiù’), consacrando canzoni che grondavano uno stucchevole patriottismo (‘Vola colomba’), una satira tremebonda (‘Papaveri e papere’), lacrimosi elogi della maternità (‘Tutte le mamme’), squallidi inviti al servilismo (‘Arriva il direttor!’). I baci, inoltre, per lunghissimo tempo risultarono letteralmente proscritti, mentre l’amore veniva ammesso soprattutto per ricordare che, generalmente, va a finir male (‘Grazie dei fior’), o che comunque procura sofferenze e infelicità (‘Viale d’autunno’ e ‘Buongiorno tristezza’). Dopo una fase di ‘urlatori’ (Tony Dallara) e ‘ugole’ ad effetto (Claudio Villa), buona giustappunto per apprendere a richiamare un amico dall’altro lato della strada, si giunse finalmente nell’epoca di Domenico Modugno, il quale pur proponendo un riferimento astrattamente metaforico all’orgasmo (maschile, ovviamente…) con la sua ‘Nel blu dipinto di blu’, ha rappresentato, per i ‘pallosissimi’ costumi dell’Italietta democristiana, quasi una ‘mezza rivoluzione’. Al di là della ‘vagonata’ di dischi venduti, Modugno in realtà ha avuto il merito di preannunciare con qualche lustro di anticipo la nuova moda dei cantautori e della musica d’autore, che in effetti è riuscita a esprimere concetti, sogni e nuovi modelli poetici spostando l’ottica culturale di un’intera generazione verso orizzonti più pensosi e sofferti. I cantautori sono stati gli autentici portatori di un ‘malessere’ ch’era divenuto ormai evidente, di una generica ostilità verso le mitologie consumistiche, di una precisa idiosincrasia per le ipocrisie e il falso perbenismo dei padri. Le loro canzoni, di volta in volta disperate e beffarde, tenere o imploranti, cominciarono finalmente a trattare temi quali la solitudine, gli amori infelici, l’amore in quanto unico vero ‘antidoto’ della vuota condizione giovanile (“Mi sono innamorato di te, perché non avevo niente da fare…” sono i significativi versi di Luigi Tenco, che identificano pienamente tale contesto storico-sociale). Proprio con il suicidio sanremese di Tenco, giunto come un meritato ‘schiaffo’ in piena faccia nei confronti di un’Italietta discofila e pudibonda, si comprese che la questione stava assumendo contorni maledettamente seri. E che la nostra musica ‘leggera’ stava cominciando a esprimere una tensione verso altri valori e stili di vita, una certa carica di anticonformismo, una vera e propria ansia di rinnovamento. La storia successiva fu, infatti, quella di un vero e proprio scontro generazionale: mentre la nostra kermesse canora si ostinava a riproporre innocui ‘pastiches’ di rock edulcorato, orrendamente fusi con la più nauseabonda tradizione neomelodica italiana, una minoranza sempre meno esigua di giovani era stata ‘intercettata’ dall’intimismo spoglio e malinconico di Gino Paoli e Fabrizio De Andrè, evocatori di un mondo che cominciava a sognare un utopico ‘altrove’, o a rovistare tra le nostre miserie quotidiane. Lo stesso Giorgio Gaber iniziò a ritrarre, con toni affettuosi e garbati, gli squallidi personaggi della ‘banlieue’ milanese – ciclisti falliti, maniaci del biliardo, bevitori di Barbera, pregiudicati “usciti da poco” – mentre Enzo Jannacci ci ha raccontato, con grande ironia, gli sfortunati approcci amorosi dei timidi frequentatori di balere, le gaie prostitute amanti della musica sinfonica, i barboni con i piedi doloranti che passeggiavano sotto la finestra della loro innamorata calzando “scarp de’ tennis”. Anche il sommesso ed esangue Sergio Endrigo, prima di lasciarsi trascinare dalle ridondanze della propria vena più ‘crepuscolare’, seppe descrivere la disillusione preventiva degli immigrati meridionali, costretti a trasferirsi al Nord per riuscire a rimediare un lavoro dignitoso. Tutto ciò ha tuttavia generato una frammentazione drammatica all’interno della gioventù italiana, lasciata totalmente priva di ogni punto di riferimento identitario e abbandonata all’interno di una confusionaria cultura musicale, che ha svariato dalle nenie lamentose di Giliola Cinquetti al rock duro e spavaldo dei Rolling Stones, dalle raffinate partiture ‘gregoriane’ di Gino Paoli agli strilli vagamente ‘swing’ di Caterina Caselli e Adriano Celentano, componendo una fotografia assolutamente ‘statica’ di un Paese che non solo tende a ‘cannibalizzare’ ogni fenomeno artistico che appare all’orizzonte, in nome di un mercantilismo ‘mordi e fuggi’ tipico di una mentalità da ‘pezzenti’, ma che da sempre si prostra acriticamente verso ogni imposizione del mercato senza mai riuscire a dominare – o quantomeno a governare – il mondo dei consumi e della produzione di massa attraverso bussole di orientamento che non siano né da ‘apocalittici’, né da ‘lobotomizzati’. La storia di Sanremo, in buona sostanza, è quella di una lunghissima ‘guerra totale’, che ha finito col determinare l’assoluta mancanza di ogni graduale ‘via di mezzo’ educativa nei confronti del nostro universo giovanile, trasformato in un ambiguo ‘Giano bifronte’ che si muove sul palcoscenico sociale ‘sballottato’ da un eccesso all’altro. Nei pur splendidi anni ’80, ci si ritrovò addirittura a dover registrare un fenomeno carico di trasgressione come Vasco Rossi nelle ultimissime posizioni della competizione, al termine di edizioni vinte da Albano e Romina Power, o caratterizzate dagli amori ‘tragicomici’ di Pupo e Toto Cutugno. In pratica, mentre il Paese cominciava ad andare letteralmente da tutt’altra parte, Sanremo rimaneva ‘abbarbicato’ attorno al ‘dogma’ dell’ipocrisia e del sentimentalismo melodico da ‘Italietta del Golfo’, quella che, Pino Daniele a parte, ha fatto ancora in tempo a scagliarci addosso due ‘tegole’ del calibro di Nino D’Angelo e Gigi D’Alessio. Si può anche continuare a discutere, oggi, su ciò che la nostra generazione più ‘antica’ di artisti abbia rappresentato, con la sua ingenuità stilistica e la propria terrificante banalità. Ma quel che proprio non possiamo perdonare a un festival di Sanremo che vorrebbe travestirsi di modernità è il fatto di esser stata la principale ‘vetrina-complice’ di un modello culturale che ha sempre trattato gli artisti e il pubblico stesso dall’alto in basso, in base a un’inculturazione di massa che ha ‘appiattito’ ogni genere di qualità individuale e professionale a mero fenomeno di prostituzione, artistica e intellettuale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(10 febbraio 2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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