di Vittorio Lussana twitter@vittoriolussana
In queste prime settimane del 2016, ecco giunta la prima ‘notiziaccia’ dell’anno: quella della scomparsa di David Bowie. Innanzitutto, dobbiamo sottolineare come i vari ‘coccodrilli’ pubblicati in questi giorni siano apparsi tutti uguali gli uni agli altri, scritti quasi di ‘getto’, senza reale affetto, né anima. Ripercorrere la carriera artistica di un musicista come Bowie per andare a formare il solito ‘coro’ di elogi iconoclastici serve a ben poco, se non ci si aggancia ai gravi problemi d’identità superati a fatica da questo personaggio quand’era ancora un ragazzo. Una serie di ‘passaggi’ che dovrebbero esaltarne la versatilità artistica, anziché inchiodarlo alle solite analisi ‘segmentate’ della sua carriera. E’ il consueto vizio dei nostri critici musicali, che con il loro pseudo-intellettualismo cercano soprattutto di dare ‘sfoggio’ del proprio bagaglio personale, anziché fotografare, attraverso un distacco maggiormente ‘rispettoso’, il percorso umano di una ‘rockstar’ di prim’ordine. Invece, ognuno è ‘innamorato’ del ‘suo’ Bowie: quello ‘glam’; quello che per primo sollevò la questione dell’ambiguità sessuale; quello edonista alla Andy Wharol; quello umanamente più maturo degli anni ’80, criticato, ovviamente, per essere approdato a una ‘dance-style’ maggiormente commerciale. Un luogo comune tanto banale, quanto sciocco, poiché un musicista, secondo certi critici, dovrebbe ‘campare’ esclusivamente d’aria e del proprio talento. Insomma, più che innanzi a dei ‘coccodrilli’, ci siamo ritrovati letteralmente ‘affogati’ da vere e proprie masturbazioni cerebrali, che hanno dimostrato come la critica musicale italiana sia, ancora oggi, talmente ideologiizzata da far quasi passare in secondo piano l’effettiva perdita culturale di un protagonista assoluto del rock europeo e mondiale. Bowie aveva, innanzitutto, un ‘timbro’ di voce fantastico, virile e profondissimo, che faceva letteralmente a ‘cazzotti’ con la propria immagine da ‘dandy’ della periferia londinese. Un modo di cantare incisivo, ma non estesissimo nelle sue tonalità: una specie di strano ‘contralto’, stridulo e cavernoso al tempo stesso. Il suo modo di interpretare una canzone dava piena contezza dei suoi gravi problemi psicologici giovanili, in quanto ossessionato dalla paura di essere schizofrenico come il fratello, morto suicida negli anni ’80. Tuttavia, proprio lo sforzo di dover superare problemi e contraddizioni profondissime, che avrebbero distrutto qualsiasi altra personalità in formazione, lo hanno condotto a sperimentare percorsi innovativi e d’avanguardia, anche e soprattutto se analizzati in una ‘chiave’ squisitamente culturale. Il suo terrore giovanile fu la sua ‘fortuna’ più autentica, poiché lo mise nelle condizioni di sperimentare una molteplicità di intuizioni e tendenze tutte estremamente intelligenti e interessanti. In fondo, il ‘nostro’ Renato Zero deve molto del proprio successo alla moda ‘ambigua’ e ironicamente trasgressiva anticipata e introdotta proprio da David Bowie. Brani come ‘Mi vendo’, ‘Il triangolo, no’ e ‘Galeotto fu il canotto’, che qui da noi hanno venduto ‘vagonate’ di dischi alla fine degli anni ’70, sono tenuti a versare un indubbio tributo di riconoscenza al modo raffinato e quasi grottesco ideato dall’artista londinese per prendere per i ‘fondelli’ una società occidentale ‘bacchettona’ e fintamente perbenista. Lo stesso stile ‘dandy’ di Brian Ferry, caratterizzato da sonorità sofisticate ed eleganti, ha avuto in David Bowie il proprio principale precursore. Ma a noi sono piaciuti anche gli anni del Bowie finalmente ‘risolto’ degli anni ’80: quello di ‘Let’s dance’, ‘Absolute beginners’ e ‘This is not America’. Un brano, quest’ultimo, musicalmente tutto da intestare a quel ‘gigante’ chiamato Pat Metheny, ma interpretato magnificamente dalla ‘strana’ vocalità del ‘Duca bianco’. Perché la vera ‘chiave di volta’, che spiega molte cose del percorso artistico di Bowie, è stata proprio questa sua ricerca ossessiva di un’identità definitiva. Qui da noi non è permesso mettere il ‘dito nella piaga’ di molte questioni psicologiche, a causa di un indifferentismo cattolico che proprio non riesce mai a comprende veramente alcun problema, almeno fino a quando non ci ‘sbatte il naso’ concretamente. Ancora oggi, è difficile far capire come l’infanzia di un orfano, o del figlio di un genitore alcolizzato o in qualche modo ‘disturbato’, costringa alcune persone a percorrere strade ‘diverse’, più tortuose e complicate, che non appartengono alle consuete ‘rette vie’ di una visione statica, quando non addirittura apologetica, della società. Quel che rimane quasi sempre ‘disconnesso’, nella critica italiana, è dunque un intero ‘pezzo’ della realtà umana dei singoli personaggi o artisti, poiché la vita di un figlio che ha perduto un genitore in età giovanile, così come quella di chi ha avuto un fratello disabile o gravemente malato, viene considerata talmente specifica e particolare da sfuggire a quelle logiche ‘omologative’, per dirla con Pasolini, capaci solamente di generare e concepire ‘santini’. Inoltre, quel che proprio non si vuol comprendere è il dato storico di una ‘svolta beat’ degli anni ’60 che ha aperto essa stessa la strada ai successivi fenomeni di costume, compreso il ‘riflusso’ degli anni ’80, i quali non sono stati affatto il momento della vittoria definitiva della più bieca commercializzazione industriale del rock, bensì una fase più riflessiva e meditata, in termini generazionali. Il difficile percorso personale e identitario di David Bowie, insomma, dovrebbe essere analizzato assai più delle sue canzoni e delle sue suggestioni, comprese le contaminazioni mimiche, ‘attoriali’ e più propriamente teatrali. Altrimenti, quale sarebbe il reale ‘aggancio’ del suo sperimentalismo ‘fantascientifico’ rispetto a quello ‘wharoliano’ o a quello ‘glam’? Sono stati semplici tentativi d’inventarsi personaggi ‘stravaganti’ pur di riuscire a raggiungere il successo e fare soldi? Nel caso di David Bowie, le cose non andarono affatto così. E quest’errore grossolano è l’ennesima prova degli schematismi ideologici di una critica musicale italiana ancora oggi impregnata da un materialismo ‘gretto’ e altrettanto ipocrita, abituato da sempre a voltare il proprio ‘sguardo’ da un’altra parte.
(14 gennaio 2016)
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