di Daniele Santi
Diceva qualcuno, ma qualcun’altro sui social sicuramente l’ha detto meglio perché tutti sui social dicono meglio degli altri, che dovremmo pensare alla nostra morte almeno una volta al giorno, così da arrivare a quel momento preparati. Qualcun altro ancora, suggerisce che la vita è un contratto a termine, così che sarebbe saggio non attaccarsi troppo ad essa. Ma noi siamo esseri umani, non possiamo pretendere di avere anche un cervello che pensa alla morte dal momento che siamo vivi e nel nostro essere vivi ci dimentichiamo persino di essere civili. Non siamo più nemmeno vecchi a 70 anni; a 50 ci comportiamo come gli adolescenti, con la stessa idiozia, la stessa superficialità, siamo più rumorosi di loro. Non riusciamo più nemmeno ad essere genitori perché per i nostri figli vogliamo essere gli amiconi, come se gli amiconi non se li trovassero fuori i nostri figlioli, coi risultati che ben vediamo. Abbiamo vinto il cancro. L’HIV non ci ammazza più; abbiamo sconfitto Ebola. Viviamo fino a cento anni in ottima salute. Con la chirurgia plastica ci fingiamo eternamente giovani. Insomma il mondo perfetto. In questo mondo perfetto e superficiale dove cerchiamo solo il benessere, dove possiamo buttare nel cesso mille euro per uno smartphone di nuova generazione, aspettare dodici ore in fila per essere tra i primi ad accaparrarselo, d’improvviso irrompe la paura di morire. Per mano altrui. Per mano di persone che i nostri principi ci portano a disprezzare non per le loro azioni terroristiche, che non conosciamo prima che le compiano, ma a priori. Per provenienza, per cultura, per essere straniero, per essere Altro, per essere omofobo, per essere scuro di pelle, per essere immigrato, per volere quello che noi abbiamo. Per essere tutto quello che noi pensiamo di non essere. Fors’anche per esserci. In quella che chiamiamo casa nostra. Disgraziatamente casa nostra è quella Casa che è andata in giro per il mondo a buttare bombe per mantenere un benessere ed uno status quo (uno status quoi?), nei luoghi di provenienza di coloro che ora le bombe ce le rendono: con gli interessi e in luoghi di pace, di divertimento, di intrattenimento, di socialità. Ce le rendono con gli interessi che sono quella paura di morire che è il punto debole della nostra società che ha risolto (o presume di avere risolto) molti quesiti, ma la questione della morte quella no, non l’ha risolta mai. Tant’è vero che si affida a sciamani che predicano la resurrezione dei corpi. Un giorno. Insomma siamo in guerra di civiltà, di nuovo (ci paice tanto dirle queste cose, anche senza capirle): e se ne sentono di tutti i colori. Dai Templari che si riarmano, ai giornalisti che consigliano il padre nostro, ai leghisti che gridano, ai lepenisti che dicono ai leghisti di stare zitti, insomma un caos mai visto. Un caos allucinante. Paura, a qualsiasi livello. La madre di un amico tunisino che abitava a fianco della presunta residenza di Arafat, nella località di Hammam Echatt a 30 minuti da Tunisi, rasa al suolo dagli Israeliani una trentina di anni fa, piangeva come una bambina mentre mi raccontava come erano andate le cose. Tutto questo odio, diceva. Ci porterà a scannarci come maiali. La signora non c’è più. Sono contento che non sia costretta a vedere che aveva ragione. Noi dal canto nostro abbiamo le nostre ragioni: noi abbiamo la civiltà, o meglio, la Civiltà. Quella Civiltà che non si discute. Che ha creato benessere, denaro, occupazione, cultura, teatri, libertà individuali, cinema, insieme ad individualismo, disprezzo per l’altro, razzismo, esseri umani che hanno meno movimento delle mucche. E che rispettiamo anche di meno. Siamo la Civiltà dell’Indifferenza Antropomorfa. Non ci frega nulla degli altri. Il giovane senegalese che ho incontrato per questioni professionali tre mesi fa e che non so per quale alchimia mi ha aperto il suo cuore, tremava e piangeva come un bambino mentre mi raccontava i suoi tre mesi nelle carceri libiche e il viaggio in barcone verso Lampedusa. Ricordo ancora lo sguardo di disprezzo delle tre cinquantenni che mi guardavano mentre lo abbracciavo per consolarlo. Ora, anche noi nostro malgrado, siamo costretti a fare i conti con le bombe ingiustificate che uccidono i nostri amici, distruggono i luoghi a noi cari, le cose che amiamo, le nostre abitudini. Non cederemo e vinceremo anche stavolta, perché le libertà delle quali godiamo non hanno prezzo, ma ci costerà fatica, sangue, paura e forse vivremo esperienze che credevamo di non dover vivere. Scannarci sui social, insultare gli altri per ciò che pensano e per ciò in cui credono, schierarsi in fazioni integraliste allo stesso modo di quelle cui appartengono coloro che chiamiamo “i nostri assassini”, i “terroristi”, gli “islamisti” o più genericamente i “musulmani”, ripostare i deliri di gente come Magdi Cristiano Allam, ci servirà a poco. Perché abbiamo scoperto di colpo di essere mortali e non onnipotenti come credevamo, ci facevano credere o avevamo bisogno di credere. La menzogna (nostra e loro) è finita: coloro che vogliono ammazzarci sono cresciuti nel mondo perfetto che noi abitiamo e abbiamo creato; sono i giovani lasciati da parte senza accorgercene (o accorgendocene e facendo finta di niente), che hanno trovato in un’ideologia assurda, spaventosa e radicale, la risposta al loro desiderio di vendicarsi di tutto e tutti. Non hanno paura di morire, al contrario di noi, perché al problema della morte loro una risposta l’hanno trovata: assurda, inconcepibile, incomprensibile e spaventosa, ma ce l’hanno. Noi, con tutto il nostro benessere e la nostra potenza di fuoco, con tutta la nostra conoscenza e le nostre libertà, risposte non ne abbiamo più. Ed è il nostro punto debole. Fare in modo di evitare che il futuro riservi conflitti ancora peggiori dipenderà dalla nostra capacità di diventare altro, migliore, di ciò che siamo stati.
(21 novembre 2015)
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