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Lorenza Morello: “Ci sono Imprese & Imprese”… Errori ricorrenti delle imprese italiane in crisi”

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Lorenza Morello 04di Lorenza Morello  twitter@Lorenza_Morello

 

 

 

 

 

È un momento difficile per il comparto produttivo italiano, sottoposto alle pressioni della globalizzazione e indebolito dalla peggiore crisi economica che i nostri imprenditori ricordino. Si tratta di difficoltà che trovano riscontro puntuale nei settori e nei distretti che caratterizzano l’economia nazionale, come confermato dai dati macroeconomici, ma anche dal nostro esame “microscopico” del tessuto imprenditoriale che si interfaccia con la nostra struttura.
Eppure, a fianco di unità produttive costrette a chiudere i battenti e di altre che caparbiamente resistono, abbiamo incontrato anche imprese che non rallentano il passo ma continuano a crescere.
In una nazione come la nostra, dove oltre il 90% sono imprese familiari e il 98% ha meno di 20 dipendenti l’imprenditore prima ancora che un business man è un lavoratore a tutti gli effetti che, a suo modo di sentire, “si alza la mattina per alzare la serranda e mantenere uno stato governato in larga parte da fannulloni”. La mancanza di esempi virtuosi genera una spirale di comportamenti deviati che, come è stato dimostrato, fa collassare qualsiasi organizzazione economica, politica e sociale.

 

L’analisi svolta in questi anni, e sintetizzata nella presente, non si è rivolta tanto ad imprese già ampiamente note, quanto a quelle realtà aziendali che, per la tipologia di mercati e situazioni affrontati e di soluzioni strategiche e operative adottate, potessero aiutarci ad identificare, partendo dagli errori ricorrenti e trasversali, una serie di best practice che fanno da spartiacque tra i sommersi e i salvati. Dati da condividere, poi, con il mondo imprenditoriale, le associazioni di categoria e i policy maker.

 

Partiamo dai dati: è stato stimato che tra imposte, tasse dirette e indrette e balzelli vari la pressione fiscale supera l’80%. Su 252 giornate lavorative, 103 riguardano scadenze fiscali, con il record del mese di luglio che prevede ben 45 scadenze. Secondo Confesercenti, seguire tutte queste pratiche costa 285 ore di impegno alle aziende italiane e burocrazia asfissiante. In altre parole, energia sottratta alla capacità produttiva. Con ciò, ovviamente, non si vuole certo dire che non sia giusto adempiere agli obblighi fiscali (altro sarebbe invece ragionare sulla adeguatezza degli stessi nel nostro Paese, ma questo è un altro tema) ma che le varie misure governative riguardanti le imprese dovrebbero prendere in seria considerazione questo problema.

 

Per quanto riguarda i dati demografici delle imprese artigiane nel nostro Paese, ecco i dati a partire dal primo trimestre 2014 ad oggi:

 

:: 3° trimestre 2015 (10.925 imprese artigiane attive)
:: 2° trimestre 2015 (10.944 imprese artigiane attive)
:: 1° trimestre 2015 (10.933 imprese artigiane attive)
:: 4° trimestre 2014 (11.115 imprese artigiane attive)
:: 3° trimestre 2014 (11.127 imprese artigiane attive)
:: 2° trimestre 2014 (11.163 imprese artigiane attive)
:: 1° trimestre 2014 (11.168 imprese artigiane attive)

 

Siamo passati, quindi, da 11.168 imprese artigiane attive nel primo trimestre 2014, a 10.925 nel terzo trimestre 2015. Queste 243 aziende che nel giro di un anno non esistono più, che caratteristiche hanno e, soprattutto, che fine hanno fatto gli imprenditori che le guidavano e perché hanno “fallito”?

 

Posto che il dato analizzato riguarda le sole imprese artigiane (periodo di partenza dell’analisi di questo scritto) guardando il comparto imprenditoriale nel suo complesso, nel primo trimestre del 2014 hanno chiuso 3.600 imprese, circa 40 aziende al giorno hanno dichiarato fallimento (+22% sullo stesso periodo del 2013), quasi due ogni ora.

 

L’incremento riguarda tanto le aziende strutturate in società di capitali (+22,6%), sia in società di persone (+23,5%) e imprese individuali (+25%), mentre resistono le imprese costituite in cooperative e forme consortili, il cui ricorso alle procedure è risultato in calo di quasi il 2%.

 

In termini di settori, tra gennaio e fine marzo una procedura fallimentare su 4 ha coinvolto aziende operanti nel commercio, +24%, ma nello stesso periodo colpisce il vistoso balzo del manifatturiero (+22,5%), che nel 2013 aveva fatto registrare un significativo calo del fenomeno: in soli tre mesi hanno cessato attività per fallimento ben 763 imprese industriali.
Stesso trend per l’edilizia, che ha chiuso il primo trimestre 2014 con 771 nuove procedure avviate, in aumento del 20,1% sui primi tre mesi del 2013.
In termini geografici, l’aumento dei fallimenti, e del ricorso alle altre procedure previste dall’ordinamento, riguarda l’intero territorio nazionale, con Nord Ovest (+22,8%), Centro (+23%) e Mezzogiorno (+27,8%) sopra la media nazionale e il solo Nord-Est (+12,5) sotto.

In valore assoluto, i dati regionali indicano la Lombardia come la regione con il più gran numero di procedure fallimentari aperte (808) nel primo trimestre 2014, seguita da Lazio (364) e Toscana (293).
Gli aumenti più consistenti hanno riguardato invece Abruzzo, Liguria, Puglia, Umbria e Marche.
In controtendenza, infine, Basilicata (-17,6%), Molise (-9,1%) e Calabria (-2,4%).

 

Guardando, ora, la situazione intra moenia, possiamo scorgere anche problemi di gestione che, da soli, possono portare al collasso anche la più florida delle realtà aziendali che, nonostante i problemi di cui sopra, avrebbe spazio d’azione.

 

A livello analitico si possono enucleare le seguenti dinamiche e gli errori conseguenti:

 

  • Primi cenni di “crisi”: la crisi (che può essere causata dai fattori più differenti, quali una situazione debitoria importante o un trapasso generazionale non gestito) viene sottovalutata, non compresa o, nei casi più gravi, negata.
  • La crisi diventa manifesta: l’azienda ha problemi di liquidità e di gestione. L’ordinaria amministrazione viene compromessa da questi fattori.
  • I terzi iniziano a chiedere risposte alle anomalie che trapelano anche fuori l’azienda: nel caso di lavoratori e fornitori la governance inizia a dare risposte equivoche e poco credibili, che minano la fiducia nella stessa.
  • La situazione continua a peggiorare: l’imprenditore viene “colto dal panico” e, non sapendo più come far fronte ai propri problemi, inizia a chiedere aiuti e consulenze senza selezionare i propri interlocutori. L’accuratezza che avrebbe adottato in tempi normali cede il passo alla fretta di trovare una soluzione e alla paura di non farcela. Si affastellano così incontri con i soggetti più disparati che, dall’ambiente finanziario passando per quello consulenziale arrivano poi al politico di turno che promette di “risolvere velocemente la pratica” che invece, il più delle volte, viene cestinata a fine incontro.
  • L’imprenditore, ormai allo stremo delle forze, cede alla morsa di una crisi che non ha saputo controllare.

 

Questo scenario catastrofico è ahimè molto reale, in Italia più che altrove, a causa della generalizzata mancanza di cultura imprenditoriale del Paese (un esempio indicativo su tutti è la commistione tra patrimonio personale e imprenditoriale).

 

Ma a queste dinamiche si può ovviare attraverso:

 

1-Una ridefinizione della “catena del valore” e una gestione efficiente e consapevole, che non nega i problemi ma li affronta per tempo e, quando possibile, li previene;

2-L’internazionalizzazione commerciale: studiata in modo consapevole e pianificata con cura;

3-Un riposizionamento strategico e di mercato: talvolta il prodotto non è vetusto, ma solo da ripensare e riposizionare;

4-La valorizzazione, innovazione e sviluppo delle risorse e competenze aziendali: la stima e la consapevolezza del cd. “capitale umano” delle aziende è un valore fondamentale ma ancora troppo sottovalutato;

5-La revisione della funzione imprenditoriale: fondamentale studiare nuovi modelli di governance e gestire il passaggio generazionale, di cui ci siamo già ampiamente occupati.

 

In sintesi, evitare la deriva strategica è possibile, così come andare verso nuovi modelli di business. La principale lezione che le imprese ci hanno trasmesso è che la “resilienza” alla crisi non si inventa sul momento, ma è il risultato di percorsi evolutivi e di crescita pianificati e consapevoli.

 

 

“In tempi di cambiamento, chi continua ad imparare erediterà la terra, chi ha smesso di farlo sarà preparato per agire in un mondo che non esiste più.” Eric Hoffer

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(12 novembre 2015)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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