di Lorenza Morello twitter@Lorenza_Morello
Sulle unioni civili già molto si è detto, pertanto questo scritto vuole limitarsi all’esame, senza pretese di esaustività, dei risvolti economici delle stesse.
Due gli articoli che, a tal proposito, giova ripercorre nella nuova norma, e nella fattispecie:
Art. 10. Legislatura 15ª – Disegno di legge N. 472
(Norme a tutela della parte
economicamente più debole)
1. Al momento della cessazione dell’unione civile, ed entro sei mesi dalla stessa, le parti possono ricorrere all’autorità giudiziaria ordinaria per chiedere la determinazione di un importo a titolo di mantenimento a favore della parte economicamente più debole. La autorità giudiziaria adita, qualora ritenga di determinare l’importo predetto, dovrà tenere conto della durata dell’unione civile, del tenore di vita della coppia, e della situazione economica, patrimoniale ed abitativa di ciascuna delle parti.
2. Le parti dell’unione civile potranno ricorrere all’autorità giudiziaria al fine di richiedere la modifica dei provvedimenti di cui al comma 2 ove risultassero modificate le condizioni.
3. Il diritto all’importo di cui al comma 1 cessa in ogni caso se la parte beneficiaria costituisce una nuova unione civile, contrarrà matrimonio, torna a convivere col coniuge dal quale aveva divorziato o ritirerà la richiesta unilaterale di separazione, ripristinando l’unione civile ai sensi del comma 2 dell’articolo 9.
4. In relazione ai profili economici della cessazione dell’unione civile, di cui ai commi da 1 a 3 del presente articolo, si applicano, in quanto possibile, gli articoli 706 e seguenti del codice di procedura civile. É ammesso il ricorso congiunto ai sensi dell’articolo 711 del medesimo codice.
Insieme a:
Art. 14.
(Regime patrimoniale della unione civile)
1. Mediante convenzione stipulata per atto pubblico, o con dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile al momento della richiesta di iscrizione delle parti dell’unione civile nel registro, le parti medesime devono scegliere all’atto di costituzione della stessa il regime patrimoniale. Tale regime può essere modificato in qualunque momento nel corso della unione civile con atto della medesima forma.
2. Qualora si ometta, per qualunque motivo, di stipulare l’atto pubblico di cui comma 1, si presume scelto il regime di comunione legale.
Ictu oculi la disciplina è dettata sulla falsariga del rapporto matrimoniale tradizionalmente inteso, oltreche dettato dal buon senso e dal senso comune. Non fosse che questi riconoscimenti di civiltà hanno destato sgomento e spavento in buona parte della nostrana classe politica che si è prodigata, incurante della canicola e del solleone, parlando di uno “spaventoso impatto” che porterebbe al “collasso” del sistema del welfare italiano. Si è sfarinata dopo un tweet del Ministero dell’Economia la propaganda portata avanti da mesi dal Nuovo Centrodestra e da alcuni esponenti di Forza Italia sull’eccessivo costo per le casse pubbliche delle unioni civili. Il Mef ha diffuso su Twitter (non senza generare polemiche) le cifre della relazione tecnica che ancora non è arrivata in Commissione Giustizia al Senato, ma è in attesa della bollinatura della Ragioneria dello Stato e dovrebbe arrivare domani in Commissione Bilancio di Palazzo Madama per il parere.
Le cifre, invero, raccontano una realtà diversa da quella che i partiti di destra hanno rappresentato all’opinione pubblica, giustificando anche così la loro contrarietà alle unioni civili. Il costo, se venisse approvato entro l’anno il ddl Cirinnà, sarebbe di 3,5 milioni per il 2016, sei milioni per il 2017. Una volta a regime, nel 2027, secondo il Mef costerebbero 20 milioni.
Le risorse sarebbero impiegate per l’erogazione delle pensioni di reversibilità e per le detrazioni fiscali a carico del coniuge. Somme del tutto irrisorie nel mare magnum dei capitoli della spesa pubblica.
Le cifre diffuse hanno colto alla sprovvista un po’ tutti gli accoliti dell’ostruzionismo alla riforma: da Malan a Gelmini, passando per Brunetta e arrivando fino al Nuovo Centrodestra. C’è però chi, da abile politico, riesce a trovare un’argomentazione legata proprio all’esiguità della cifra, rispetto alle “decine di milioni” paventate illo tempore da taluni destrioti.
L’ex ministro Lupi, infatti, vede nei calcoli del Mef il pretesto per non approvare il ddl Cirinnà: “Le previsioni dell’impatto economico dimostrano che questa non è una priorità per il Paese. Tre milioni e mezzo nel 2016 e sei milioni nel 2017 sono la documentazione delle dimensioni del problema rispetto all’esigenza di un aiuto concreto alle famiglie, soprattutto a quelle con figli”. In altre parole: se costano così poco vuol dire che interessano un numero esiguo di cittadini, e quindi muovono pochi voti, ergo: tanto vale non approvarle.
(28 agosto 2015)
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