di Mila Mercadante twitter@Mila5670236
Nanni Moretti ha realizzato un film denso e profondo che non lascia scampo. E’ riuscito a sublimare il lutto, è partito dalll’intimità e dal privato e ha aperto la porta di casa sul mondo, è riuscito a restare all’ombra del suo doppio (Margherita) con pudore e nello stesso tempo è venuto verso di noi come mai aveva fatto prima, ammorbidito e con l’andatura precisa di chi è disposto a cedere. In “Mia madre” gli adulti sono spaesati e privi di risposte, gelosi della loro inadeguatezza e delle loro difficoltà a trovare spiegazioni, a sostenere il clima pesante dell’epoca, il peso delle cose che non sono state, gli affanni del quotidiano, i dolori che spezzano il cuore. La madre e la figlia adolescente di Margherita invece no, loro sono le sole a sapere cosa fare e perché: devono arrivare dall’altra parte, una deve andarsene, l’altra deve crescere e tutte e due lo fanno con leggerezza, senza ansia.
“Mia madre” è un film difficile, attesta il consolidamento pieno della maturità artistica e personale di Moretti, una maturità che già si intuiva nel bellissimo “Habemus Papam” nel quale Moretti anticipava due temi importanti di “Mia madre”: quello dell’inadeguatezza e quello del ruolo che tocca a ognuno di noi e non solo a chi fa cinema, perché lo sdoppiamento tra l’essere sociale e il privato, il peso delle aspettative altrui, la recita, la realtà e la finzione che si confondono e si rincorrono sono cose che riguardano un po’ tutti. E riguarda tutti – prima o poi – il nucleo centrale del film, che è la sofferenza per la morte di una madre.
Margherita Buy è Nanni Moretti, lo è così tanto che a volte sul suo bel viso pare di vedere le espressioni di lui, certi mezzi sorrisi. Fa la regista e sta girando faticosamente un film sul dramma dei disoccupati. La preoccupazione per la mamma malata si manifesta con incubi notturni (bella e raggelante la scena della sua casa allagata), mentre il lavoro e le attività consuete sono continuamente interrotti dai ricordi, cosicché Margherita sta sempre fuori dalla scena, fuori dal contesto, si allontana dalla realtà e – atterrita e insicura – non accetta l’ineluttabilità della morte. Suo fratello Giovanni, un ingegnere interpretato da Moretti, è un uomo dolce, disarmato e un po’ stanco che non tenta di resistere. Prende una decisione sicuramente collegata alla lenta agonia materna e si licenzia dal lavoro, un paradosso in un tempo come questo ma soprattutto una presa di coscienza: arrivati a quel punto spariscono gli alibi, è meglio tradirsi che imbalsamarsi e così prende forma la necessità di lasciarsi alle spalle il passato e cambiare. E’ allora che la morte della mamma travalica la dimensione privata e diventa simbolica: si dice addio a un’epoca e a un mondo che finiscono. Giovanni è il demiurgo che permette a Margherita di mettere a nudo il viluppo di nervi, paure e fragilità. L’interpretazione dei due attori è magistrale.
La digressione che allenta la tensione della narrazione è la figura geniale di John Turturro, che deve recitare nel film politico di Margherita e che squarcia con la sua presenza carnale e rumorosa il velo di tristezza che avvolge ogni fotogramma. Vittima di tempestose quanto labili passioni, egli è antitetico a Margherita e a Giovanni, del tutto privo di sovrastrutture e delle implicazioni psicanalitiche tanto care a Moretti. Turturro è l’incarnazione della lotta dell’individuo che si oppone alla maschera e della difficoltà immensa a sgusciarne fuori. Non riesce ad imparare a memoria la parte dell’imprenditore americano che compra la fabbrica e licenzia gli operai, non gli piacciono i dialoghi, non gli piace quel film, forse non gli piace neanche più fare l’attore. In uno dei suoi momenti d’impazienza sul set pronuncia una frase emblematica: “Fatemi tornare alla realtà”. Lo dice con disperazione e sembra che parli per l’attore, per il cinema, per Moretti, ma c’è un’altra chiave interpretativa: il film di Margherita è uno spaccato della nostra società che non ci piace e da cui – se fosse finzione – vorremmo uscire tutti al più presto.
Quanto alla straordinaria Giulia Lazzarini, è l’archetipo della madre, un modello perduto di tenerezza umana e di solidarietà, delicatissima figura a cui è affidato il compito di fornire un’indicazione preziosa quando dice alla nipote, apparentemente senza sottintendere altro: “Non accontentarti mai della prima parola che trovi sul vocabolario”. Intorno a lei si coagula tutto il valore e il senso degli affetti familiari, della costruzione di un’identità. La madre è la casa, la custode della memoria, è colei che ci guarda da un punto di vista irripetibile, è l’amore senza condizioni. Da morta diventa un luogo della compassione dove i figli vanno a ricucire i frantumi e a imparare la preziosità delle sfumature. E’ lei che congeda gli spettatori quando con un’espressione da bambina stupita pronuncia l’ultima frase del film, l’ultimo regalo, una parola salvifica che improvvisamente scatena nello spettatore una commozione che sgomita e scavalca tutto il groviglio di emozioni accumulate durante la proiezione e viene fuori come un singhiozzo.
(21 aprile 2015)
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