di Rosario Coco twitter@RosarioCoco
Parliamo di Sinodo. E del gran polverone di quest’ultima settimana. Si è parlato quasi all’unisono di marcia avanti e marcia indietro, di apertura e di ritirata. La mia impressione è che su determinate questioni il dibattito si fermi su un piano meramente retorico, che non riesce ad intaccare quel nucleo granitico chiamato dottrina che nessuno ha il coraggio di mettere in gioco. Perchè disturbarsi a parlare del Sinodo? Non possiamo non ammettere, volenti o nolenti, che il risultato del grande consesso vaticano influenzi de facto la politica e la vita di migliaia di cittadini e cittadine, credenti e non. Quindi vale la pena capirci di più.
Sulla questione relativa alle “famiglie ferite”, ovvero i divorziati, sembra ancora lontana un’intesa sui sacramenti. I paragrafi che riguardano la comunione ai divorziati rimandano sostanzialmente la questione auspicando una strategia di “discernimento” tra i diversi casi e descrivendo le posizioni in campo. Si apre solo alla comunione spirituale. Nelle due relazioni, la “post disceptationem” del cardinale Erdo e quella finale, i contenuti restano in buona sostanza invariati, salvo un ricalcare, in quello conclusivo, i vari fondamenti dottrinali, dall’indissolubilità del matrimonio alla “situazione oggettiva di peccato” rappresentata dal divorzio, fino ad una citazione del Catechismo della Chiesa Cattolica del 1795. Innovativo.
L’unica cosa che fa ben sperare sono i voti. Con 104 favorevoli e 74 contrari e 112 contro 64, i paragrafi sulla questione divorzio sono i più controversi di tutto il documento, seguiti immediatamente da quello sull’omosessualità, 118 contro 62. Non staremmo qui a discutere dell’ostia ai divorziati se non si trattasse della punta di un iceberg culturale molto più ampio e visceralmente radicato nella nostra cultura italica.
L’andamento del Sinodo, che in sostanza apre solamente alla “comunione spirituale”, trasmette chiaramente l’idea di non voler cedere di un millimetro su un impostazione teorica che prevede un controllo monopolista della verità e delle relazioni umane. La vita del buon cristiano resta legata all’indissolubilità del matrimonio e, pur con tutte le eccezioni del caso, a meno che non si arrivi al fatidico annullamento, chi si separa è come se scendesse in “serie B”. Nel nostro Paese, fatto di province e cittadine, dove a distanza di pochi chilometri si possono trovare mondi estremamente diversi tra loro, questo si riflette direttamente sul modo di rapportarsi alla sessualità e ai sentimenti di migliaia di persone, soprattutto donne, creando, ancora nel 2014, sensi di colpa e situazioni di sofferenza del tutto prive di fondamento. Verrebbe da pensare, inoltre, che la Chiesa non si pone alcun problema circa l’eucarestia nei confronti di pregiudicati e condannati, ma chiude invece le porte ai divorziati. Non ci sarà qualche incongruenza?
Dal matrimonio alla famiglia. Nella storia della Chiesa la dottrina ha subito dei mutamenti considerevoli. La dottrina della famiglia mononucleare tra uomo e donna, così come viene raccontata oggi, è un risultato del secolo scorso, dovuto allo svuotarsi delle campagne e quindi al declino della famiglia patriarcale contadina. Allo stesso modo, ad esempio, la dottrina della “vita sin dal primo concepimento” è un prodotto storico. Verso la metà dell”800 la dottrina della formazione dell’anima nel feto di Tommaso D’Aquino, secondo il quale l’anima si formava dopo 40 giorni per gli uomini e 90 per le donne, venne sostituita dall’assunto della vitalità dell’embrione sin dal primo concepimento. Questo dimostra che anche la dottrina cambia, anche se non necessariamente in meglio. Lascia quindi un po’ l’amaro in bocca l’assenza di qualunque cenno alla contraccezione, né tantomeno alla sessualità più in generale, argomenti che non hanno trovato spazio nemmeno nella prima relazione del Sinodo, annunciata come profondamente innovativa dai media. Viene da pensare che, nell’ambito di temi etici quali l’eutanasia e il fine vita, la Chiesa condanna allo stesso modo azioni ed omissioni che possano in qualche modo togliere la vita al paziente. Ebbene, non è una colossale omissione rinunciare a parlare di preservativo ed educazione sessuale date le ormai note epidemie di AIDS nei continenti più poveri e il rinvigorire di tutte le malattie infettive anche nel nostro Paese?
Da ultimo, la questione delle persone omosessuali. Qui effettivamente c’è stata una marcia avanti ed una indietro. Ma solo sul linguaggio. Nella prima versione della relazione, come ormai noto, si parla di “doti e qualità preziose che le persone omosessali avrebbero da offrire alla comunità”. Dopodichè ci si chiede “come accogliere?” Nella prima traduzione in inglese figura il termine “welcome”, nella seconda il più freddo “provide to”. Che la questione sia un vero e proprio vietnam linguistico lo capiamo dalle relazioni dei circoli minori, i gruppi di lavoro che hanno prodotto i documenti intermedi. Il secondo gruppo francese ha sottolineato che non bisogna discriminare le persone omosessuali, “ma ciò non significa che la chiesa deve legittimare le pratiche omosessuali o ancor meno riconoscere, come fanno certi Stati, un cosiddetto ‘matrimonio’ omosessuale”, mentre il primo gruppo spagnolo ha affermato che non bisogna parlare di omosessualità “quasi come se l’omosessualità fosse parte dell’essere ontologico”, ma solo di “persone con tendenze omosessuali”. Ed ecco svelati, se ce ne fosse bisogno, gli arcani. Le “pratiche” omosessuali restano sempre il problema principale e ciò accade perchè l’essere ontologico, ovvero una certa idea di natura umana, non può essere in alcun modo “macchiato” dall’omosessualità. E’ un modo per dire, “l’omosessualità resta sempre un “errore”, ancor peggio se “praticata”, non può essere nemmeno lontanamente qualcosa e spontaneo o naturale”. Questa posizione la conosciamo bene, la notizia è che, mutatis mutandis, che si cerchi più o meno di accogliere o che si sia più o meno morbidi, essa rimane la medesima, sia tra i progressisti che tra i conservatori. Anche nella versione del cardinale Erdo si parla di “problematiche connesse alle relazioni omosessuali” e di sfide “educative connesse alla sessualità”. Come dire: bisogna fare in modo di limitare il fenomeno, di ridurre l’impatto. Se la posizione progressista si muove in una mera ottica di tolleranza di qualcosa che rimane sempre “problematico” è chiaro che alla fine prevale la posizione originale, per cui nella relazione finale leggiamo che “non esiste alcuna analogia, neppure remota, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sulla famiglia” e che si deve evitare ogni marchio di “ingiusta discriminazione”. Come se esistesse quella “giusta”. Inquietante.
Insomma, il problema, in fin dei conti è sempre lo stesso. La chiesa è terrorizzata dal fare i conti con il tabù della sessualità, qualcosa che, invece, tanti preti di strada e diverse chiese come quella valdese hanno già fatto. Preferiscono arroccarsi su una dottrina senza tempo, che scricchiola ogni giorno di più. E questo si riflette su tutte le problematiche sin qui affrontate: la contraccezione, il divorzio, l’omosessualità. Chi si oppone ad un’ideologia che deve necessariamente controllare ciò che avviene sotto le lenzuola, è fuori. Dentro invece può rimanere chi si rassegna al fatto che la libertà debba trasformarsi in ipocrisia, che l’energia dei corpi debba diventare uno sfogo nevrotico annegato nei sensi di colpa, che le relazioni umane debbano essere fonte di costrizione anzichè di liberazione e crescita della personalità.
Speriamo che questo lungo medioevo finisca presto e che prevalga tanto la libertà di essere quanto la capacità di costruire relazioni degne di questo nome.
(21 ottobre 2014)
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