di La Karl Du Pigné
La mia amica lelletta di Ciampino è tornata dalle ferie, e ha subito colpito. Me la sono ritrovata una sera, tardi, in casa, dopo aver strimpellato il campanello come una furia. “Amo’ questa te la devo raccontà” e mi ha sommerso con circa 45 minuti di racconto della sua vacanza al mare con madre, fidanzata (che però non si deve sapere, che però dormono insieme e quindi o la madre è sordocieca oppure è talmente fuori che pensa veramente che sono solo amiche). La lelletta è arrabbiata: quest’anno le tre settimane al mare sono state una tribolazione, brutto tempo e pioggia quasi sempre. E che fanno due lelle, fidanzate di nascosto, con la madre di una delle due che alle 7 di mattina incomincia a pensare a cosa fare da mangiare per pranzo, come se fosse il cenone di Capodanno? Insomma è tornata senza abbronzatura e con 4 chili in più, e quasi tutte le mattine è rimasta a casa, lei e il suo amore, nel letto, aria condizionata al minimo e un bel film. “Me pareva d’esse ritornata piccola, te lo ricordi a Roma, a giugno, quando la Rai faceva i film alle 10 di mattina?”.
La memoria breve incomincia a vacillare, se penso a quello che ho mangiato ieri a pranzo magari ci devo pensare un po’, ma quella a lungo termine non perde un colpo. Era la fine degli anni Sessanta ed io ero una giovanissima pargoletta libera dagli impegni scolastici. Di fronte a casa mia una distesa di campi dove veniva ancora coltivato ad anni alterni il grano. Sembrava di essere in campagna ma ora quella zona è considerata semiperiferica, per arrivare alla periferia di Roma ci sono almeno altri 7/8 chilometri. A ottocento metri in linea d’aria dalla mia finestra c’era il vascone della piscina di Cinecittà, dove giravano le scene di mare dei film mitologici e ricordo come un sogno quando, all’inizio degli anni Settanta, ci montarono il Rex, la nave di Amarcord di Fellini, che girava fino a tarda notte. Da lontano sembrava un’astronave, piena di luci che sparavano ovunque. Quando a Roma, più o meno nel mese di giugno, c’era la Fiera di Roma, la mattina in televisione mandavano una rassegna di film. Oddio, chiamarla rassegna è forse un po’ troppo, ma ricordo l’attesa di sapere il film che avrebbero dato. Si svuotavano i cortili, i prati, le vie, i giochi con gli amichetti del cortile venivano interrotti: tutti a casa per il film della mattina. Film di guerra anonimi, Stanlio e Ollio, western con il solito John Wayne (già vecchio) e poi alcuni film di fantascienza, con orrore ricordo “La cosa” in bianco e nero ambientata al Polo Nord e con piacere “Ultimatum alla Terra”, con l’enorme disco volante che scende su Central Park.
Ma tutta questa pappa che c’entra con l’iniziale “Ce sei nato o ce sei diventato?”, direte voi. Fra tutti i film che ricordo di aver visto durante quelle mattinate passate davanti alla tv piuttosto che scorrazzando in giro, uno lo ricordo con il particolare affetto del bambino di dieci anni che ancora per fortuna alberga in me. E devo ricordare anche che avevo ben in mente cosa mi piacesse e a che cosa fossi destinato già in tenera età: quando vedevo un film western, ad esempio, io non mi immedesimavo mai nel rozzo e duro cowboy con fucile o pistola, ma sempre nella sua amata che, nonostante le strade polverose o le scene di pioggia torrenziale, era sempre vestita e agghindata a puntino, bianca e diafana, con abiti improbabili per il Far West e di almeno un mezzo metro più bassa. E se la trama non prevedeva una donna, allora io ero l’indiano di turno, che non riuscivo proprio a vedere come il cattivo anche se la sceneggiatura me lo voleva far credere. Il film in quetione era “Il ragazzo dai capelli verdi”, che mi è anche capitato di rivedere poco tempo fa. Dopo quasi mezzo secolo però l’emozione di quel bambino che una mattina si sveglia e scopre di avere tutti i capelli verdi , diverso da tutti gli altri, ancora mi attanaglia e mi ricorda che io mi sentivo proprio così, unico e diverso.
Il film in realtà è un atto di accusa al razzismo e un invito alla tolleranza e alla libertà, girato nel 1948, dopo gli orrori e gli sfasci della seconda guerra mondiale. Ma il mio ricordo e i miei sentimenti di allora lo colllocano piuttosto in parallelo con quello che io sentivo di essere in quel periodo: un’anomalia, una diversità che sembrava ai miei occhi unica. Non avendo altri riferimenti intorno a me, sentivo di essere così da sempre o almeno da quando ricordavo, non sapevo di essere “polimorfo” e perverso e che la società voleva trasformarmi in un adulto eterosessuale (Mario Mieli docet), non avevo letto la Nussbaum, Matteo Winkler, la Butler o di Andrea Pini “Quando eravamo froci”. Mario Mieli doveva ancora partire per l’Inghilterra e io mi barcamenavo tra i giochi, leciti e non, con i ragazzi del cortile e le letture dei libri presi in prestito dalla biblioteca del quartiere, che leggevo in grande quantità, senza nessuna selezione e divorandoli letteralmente. Si, ero diverso, lo sentivo e ne ero fiero. E non vedevo l’ora di crescere. Ma rispetto ai miei gusti sessuali continuavo a considerarmi anomalo e, appunto, diverso. Il che non mi impediva di fare “sperimentazioni”.
Ma perché ero così? La risposta più facile, quella che mi proteggeva era che ci ero nato, quindi non potevo farci nulla, ero così e basta. D’altra parte un po’ più avanti, negli anni Settanta, ho incominciato invece a pensare che quelle pulsioni che sentivo non potevano essere una questione solo ormonale o di nascita e che dovevo lasciarle scorrere dentro di me, anche se questo non risolveva il dilemma dell’esserci nato o dell’esserci diventato. Molti, anche al giorno d’oggi, affrontanto il tema con superficialità: sento molti gay che dicono di essere nati “così”, che da quando si ricordano sono sempre stati “così” e bla bla bla. I nostri detrattori pensano che siamo solo dei sudicioni, il loro disgusto nei nostri confronti è l’avversione viscerale che hanno nei confronti delle pratiche omosessuali, viste spesso solo come scambi di secrezioni corporee sporche (illuminante la lettura, che consiglio a tutt*, di Martha Nussbaum “Disgusto e umanità”).
Mi rifiuto di pensare che il mio dna ha una delle eliche di colore rosa e a gambe accavallate ed è questo che mi rende un omosessuale. Non credo alla storia dei moscerini gay e nemmeno che il mio essere gay dipenda dalla maggiore o minore produzione di un enzima o dalla mancanza di ormoni maschili (che renderebbe giustizia a migliaia di stilisti, parrucchieri, truccatori, web designer e artisti ma non certo a tutti i gay meccanici, muratori, contadini, pompieri, militari, idraulici e bla bla bla).
Propendo invece per una spiegazione più “sociale”, legata all’ambiente in cui si cresce, alle esperienze che si fanno, alle occasioni che si colgono e quindi a una cosciente autodeterminazione. Sarà forse l’orgoglio di essere gay che mi spinge a dire questo, ma nel corso della storia siamo stati stigmatizzati, dileggiati, sbattuti in cronaca e indicati come torbidi e perversi, picchiati, disprezzati, schedati, osteggiati, minacciati e troppo spesso anche uccisi.
All’esserci nato preferisco di gran lunga l’esserci diventato, per scelta e non per destino. E qualunque cosa voi pensiate, c’è solo da essere orgogliosi di quel che si è. Adesso può partire la sigla di chiusura. Gloria Gaynor, traccia n. 3, I am what I am. Inevitabile.
(7 settembre 2014)
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